Mosca città aperta

/ 16.07.2018
di Aldo Cazzullo

Sono Mondiali di calcio bellissimi, anche se non c’è l’Italia, anche se la Svizzera è uscita – immeritatamente – agli ottavi di finali. Sono bellissimi anche perché segnano l’apertura al mondo di un grande Paese, la Russia, a prescindere dal suo leader.

Sono stato all’inaugurazione di Mosca, e mi ha colpito la sobrietà e l’intensità della cerimonia. L’orgoglio russo ha parlato con la musica di Ciajkovskij, l’Uccello di Fuoco di Stravinskij, la tradizione circense degli acrobati, e pure con le parole di Putin. Quattro anni fa i brasiliani fischiarono la presidenta Dilma; i russi hanno acclamato il loro capo, interrompendolo con un’ovazione, nonostante il discorso né breve né brillante: la fratellanza sportiva, «l’umanesimo del calcio», la Russia «aperta, ospitale, accogliente». Gli unici fischi venivano dal settore stampa.

La tribuna d’onore sembrava un vertice di partiti fratelli dell’Unione Sovietica, più che una vetrina del mondo libero. C’era il caro presidente azero Ilham Aliyev, che non è solo omonimo ma pure figlio di Heydar Aliyev, fondatore della dinastia che tranne qualche deprecabile interruzione regna a Baku dal 1969. Accanto, il collega armeno Nikol Pashinyan, cui l’Azerbaigian contende il Nagorno-Karabakh. E il mitico Nursultan Nazarbaev, che ha preso il potere in Kazakhstan subito dopo il crollo del Muro e non l’ha più mollato; al suo confronto pareva un sincero democratico il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman, venuto a Mosca un po’ per tifare, un po’ per concordare con Putin il calo delle estrazioni di petrolio in modo da far ulteriormente aumentare i prezzi.

Dall’Europa non è venuto quasi nessuno tranne Schroeder, ormai un famiglio. C’erano il caudillo rosso Maduro, che pure avrebbe avuto altro da fare, e il presidente del «libero» Parlamento nordcoreano Kim Yong-nam, molto inquadrato dalle telecamere; ignorati il kirgizo e il moldavo; l’abkhazo e l’osseto del Sud non li riconosce quasi nessuno.

La Merkel aveva detto che sarebbe venuta a tifare Germania: non ne ha avuto l’occasione, a conferma che è molto difficile rivincere un Mondiale. L’Europa ha parlato soprattutto con la voce di Francia e Inghilterra.

La Russia si è presentata con il sole fresco di una Mosca mai stata così bella, dopo aver costruito centinaia di chilometri di marciapiedi in due anni, gallerie d’arte contemporanea che ospitano affollatissime mostre del graffitaro anticapitalista Banksy, rifatto lo stadio olimpico vigilato dalla statua di Lenin e dai marchi degli sponsor. La Nazionale russa è andata meglio del previsto. Il judoka Putin, che gioca a hockey ma fatica con il calcio, non si è sempre fatto vedere allo stadio; ma ha mandato segnali politici inequivocabili al mondo. Tra i momenti più emozionanti, le volte in cui è risuonato – cantato da tutto il pubblico, e da migliaia di giovani senza biglietto saliti sulle colline vista stadio – il meraviglioso inno russo, che è poi quello sovietico, commissionato da Stalin in piena guerra mondiale. Abbandonato dopo il crollo dell’Urss, lo reintrodusse Putin, dopo aver notato che all’Olimpiade di Sidney 2000 nessun atleta russo cantava l’inno nuovo. Il testo fu affidato al poeta Sergej Vladimirovic Michalkov, lo stesso del 1944, che dimostrò versatilità: dove c’era «Lenin» mise «Dio» o «patria», dove c’era «comunismo» mise «fede».

Del resto, come spiega Sergio Romano nel suo saggio su Putin, «la Russia si è sempre identificata con un’ideologia». Non si tiene insieme un impero, un Paese da undici fusi orari, un crogiolo di etnie senza una visione o un credo. Mosca è stata per secoli la «terza Roma», l’erede dei Cesari e di Bisanzio, la protettrice dell’ortodossia e dei popoli slavi. Poi, dopo il 1917, si è fatta apostolo di un altro culto messianico: il comunismo. Tra la Russia bianca e quella rossa, tra l’ortodossia religiosa e quella marxista, Putin ha scelto la prima: ha riaperto chiese e monasteri, si è fatto fotografare mentre venera le reliquie dei santi, ha ripristinato le onorificenze zariste. Ma non ha fatto nulla per contrariare i nostalgici di Stalin (esistono) e della gelida notte brezneviana. I germi del totalitarismo non passano come quelli del raffreddore, e la Russia ne è ancora intrisa. L’apertura è un progetto che rischia di restare una velleità, se Putin non darà veri segni di cambiamento, se continuerà a far processare gli oppositori, se la società civile non si farà sentire con maggior forza. Ma sarebbe miope negare lo slancio dei russi verso l’Europa e il mondo globale. Per descriverlo restano valide le parole con cui Caadaev, lo scrittore che gli slavofili avevano fatto passare per pazzo, lasciò prima di morire nell’aprile 1856 a proposito delle riforme di Pietro il Grande: «Aprì la nostra intelligenza a tutto ciò che esiste, fra gli uomini, di idee grandi e belle; ci consegnò all’Occidente intero, quale i secoli lo avevano fatto; e ci diede come storia tutta la sua storia, come avvenire tutto il suo avvenire».

Poi, dopo qualche giorno, la location passa in secondo piano; e il Mondiale conta soprattutto per il calcio. Però il clima fresco ha rigenerato campioni stanchi. E per un Messi e un Cristiano Ronaldo tornati a casa anzitempo, sono emersi talenti giovanissimi, tra cui lo splendido Mbappé: figlio orgoglioso della banlieue di Parigi.