Al terzo tentativo, Andrés Manuel López Obrador, soprannominato AMLO, ce l’ha fatta: sarà il prossimo presidente messicano. E avrà un solo mandato di sei anni per cambiare il Messico, restituirgli un po’ di sicurezza, di eguaglianza, per combattere una corruzione stimata in 25 miliardi di dollari all’anno. Le aspettative che convergono su questo populista-nazionalista di sinistra, già sindaco di Città del Messico (2000-2005), e sul suo movimento Morena che ha conquistato la maggioranza in entrambi i rami del parlamento e diversi governatorati, sono enormi. Ma proprio la sua esperienza di sindaco della capitale, durante la quale dimostrò di saper coniugare una politica sociale (rendita per tutti gli anziani in primis) e una gestione sana delle finanze pubbliche, trovando accordi e alleanze nel mondo economico, lasciano ben sperare.
Decenni di connubio fra governanti e criminalità organizzata, di violenze, di corruzione, di ineguaglianze, di conseguenze negative di una politica liberalizzatrice (sfociata in quel Nafta che Trump combatte perché lo ritiene troppo favorevole a Messico e Canada), in un paese in cui la metà della popolazione è tuttora in povertà, hanno spinto la maggioranza dei messicani a voltare le spalle al Partito rivoluzionario istituzionale e al suo contraente Pan, il Partito di azione nazionale, per affidarsi ad un uomo che rappresenta l’anti-establishment e allo stesso tempo una speranza di salvezza per la democrazia. Il voto messicano si iscrive perfettamente nella tendenza in atto nell’America Latina, di una volontà di cambiamento di un frustrante status quo (con il Cile e la Colombia che virano a destra, mentre il Messico va a sinistra). Ma non è tanto uno scontro ideologico, quello in corso nell’America Latina, piuttosto una richiesta disperata di un modo di governare pulito (e AMLO è da tutti considerato persona onestissima), che restituisca fiducia alle istituzioni pubbliche, o finalmente la conceda. Leggo sul «New York Times» che, secondo l’organizzazione Latinobarometro, l’anno scorso la fiducia nella democrazia in America Latina è scesa al 53 per cento, da un 61 per cento nel 2010 – in Messico al 18 per cento, ancora meno che in Venezuela (22 per cento). Vi ha certamente contribuito lo scandalo Odebrecht, dal nome della compagnia brasiliana che ha ammesso di aver pagato tangenti a politici in tutta l’America Latina, fatto che in Messico non ha portato a incriminazioni.
Nel caso del Messico, si deve in realtà parlare di democrazia incompleta. O come potremmo definire una democrazia che conosce un grado di violenza tanto alto? Soltanto durante la presidenza del secondo presidente del Pan Felipe Calderón (2006-2012), che dichiarò guerra ai cartelli della droga, si contarono oltre 120mila morti, oggi la violenza continua, la metà del paese è sotto il controllo delle varie mafie, 35 mila persone sono certificate come desaparecidos (più di quante ve ne furono durante la dittatura militare argentina), e non si sa quante per mano della criminalità e quante per mano del potere statale. Allo stesso tempo, il Messico è un paese in cui la classe media è cresciuta, gli investimenti esteri sono importanti, c’è il diffuso desiderio di avere uno Stato efficiente e non corrotto, maggiore sicurezza, meno diseguaglianze. López Obrador saprà creare le condizioni per un cambiamento radicale della cultura politica? Avrà abbastanza personale politico e tecnico a disposizione per rinnovare le istituzioni? Saprà coniugare politiche sociali e libertà economiche? Come si porrà di fronte alla criminalità organizzata? AMLO è ancora un’incognita, ma alternative non ce n’erano davvero più.