Gli inglesi non avrebbero dovuto partecipare alle elezioni europee, ma ora che sono costretti a votare – la Brexit ancora non c’è stata – sono entrati in pieno clima pre elettorale, con tutto il colore e la fantasia che il Regno Unito sa produrre e con quella rinnovata fiducia che soltanto il calcio sa dare: due squadre britanniche in finale di Champions League è come un gigantesco urlo «siamo ancora vivi» in un Paese che politicamente sembra un morto che cammina.
I conservatori sono i più abbacchiati: circolano numeri disastrosi – c’è chi teme che il partito al governo non superi il 10 per cento dei consensi, addirittura – e l’unico sentimento condiviso è quello di far fuori Theresa May, la premier che ha annunciato che se ne andrà quando l’accordo sulla Brexit sarà approvato, e potrebbe volerci molto tempo. Ogni giorno i giornali raccontano piani di golpe interni diversi e inefficaci, mentre la May prova a portare avanti i colloqui con il Labour per trovare una formula Brexit sostenibile in Parlamento, missione quasi più impossibile dei già impossibili negoziati con l’Unione europea.
Col tempismo che lo caratterizza, è in arrivo anche Donald Trump, con il suo carico brexitaro, e come sempre accade quando si muove il presidente americano la visita non sarà innocua. Il logorio gioca contro la May e contro il Partito conservatore, che non sa più cosa augurarsi e si perde nei complotti e nelle fantasie. A tutto vantaggio del fantasioso Nigel Farage, che con il suo nuovo partito, il Brexit Party, sogna in grande: nei sondaggi è in testa, le europee potrebbero essere di nuovo la sua consacrazione, come già accadde nel 2014, quando era il leader dell’Ukip indipendentista.
Farage è l’unico vivo in un Paese-zombie: la Brexit è zombie, la May è zombie, e nemmeno Jeremy Corbyn, leader del Labour incastrato nella sua ambiguità, pare troppo in forma (precisazione: il laburisti sono ben più rilassati dei conservatori, non temono il disastro perché non lo prevede nessuno, Corbyn cerca di non parlare di Brexit ma di economia, dei «pochi» che dominano e dei «tanti» da riscattare). Farage, dicevamo, viene descritto come l’unico leader degno di nota: c’è chi dice che ha smesso i panni «da clown» e ha infilato quelli da «politico serio».
La teoria è per lo più condivisa da commentatori filo Brexit, quindi risulta un po’ di parte, e a sentire quel che dice davvero Farage non sembra nemmeno troppo realistica: Farage è Farage, il folklore fa parte del pacchetto. Quel che è vero, semmai, è che il Brexit Party, appena nato e figlio di numerose liti all’interno del campo dei falchi della Brexit, sembra l’unico partito dotato di una strategia: slogan chiari, per quanto ritriti, e un occhio al futuro, per esempio a una suppletiva che si terrà appena dopo le europee, il 6 giugno, a Peterborough. Come a dire: non ci basta l’EuroParlamento, vogliamo mandare in tilt Westminster.
Gli europeisti – dai quali escludiamo ormai, e con un certo dolore, il Labour – hanno invece preso una strada diversa: non si sono uniti, procedono ognuno per conto proprio. Dicono che così il sistema proporzionale delle europee diventa più vantaggioso. Ma al momento si notano soltanto le distinzioni tra i vari gruppi: i liberaldemocratici, rinsaldati alle recenti amministrative, sono i più diretti con lo slogan «Bollocks to Brexit», al diavolo la Brexit, che ha il merito di dare conto anche dell’esasperazione prevalente. Poi ci sono i Verdi, che approfittano della nuova centralità recuperata dai temi ambientali, e il Change UK, che come il partito di Farage è appena stato fondato da fuoriusciti europeisti del Labour e dei Tory.
Gli studiosi della comunicazione politica probabilmente prenderanno in futuro il Change Uk come esempio di quel che è meglio non fare: non c’è un leader ma tanti portavoce, il logo è cambiato molte volte (e comunque non è bellissimo) e così pure il nome (all’inizio era l’Independent Group). C’è stato anche un caos sui social: il precedente account su Twitter legato all’Independent Group è stato abbandonato e ne ha preso il controllo un gruppo brexitaro. Insomma, parecchia confusione. Il messaggio per fortuna è chiaro: un secondo referendum sulla Brexit. E a guardare sondaggi e campagna elettorale, sembra quasi che nel Paese-zombie queste europee-zombie possano alla fine essere la cosa più simile a un secondo referendum che si potesse avere. Il problema è che anche l’esito poi – ha cambiato idea il Regno Unito, sì o no? – rischia di diventare un morto che cammina (toccherà appassionarsi al calcio, forse).