Matteo contro Matteo

/ 23.09.2019
di Aldo Cazzullo

Matteo Renzi continua a stupire. La sua decisione di uscire dal partito democratico è all’apparenza incomprensibile. L’ex premier aveva annunciato che se ne sarebbe andato se il Pd avesse fatto l’accordo con i 5 Stelle; ma è stato proprio lui a propiziare la svolta. La spiegazione al suo addio può essere una sola: Renzi vuole diventare il capo del centrodestra italiano, in competizione con l’altro Matteo, Salvini. Più precisamente, il suo obiettivo è rappresentare il punto di riferimento dei moderati, dei cattolici, dei liberali stretti tra l’estremismo leghista e il governo giallorosso. Il suo modello è Emmanuel Macron: non a caso gli europarlamentari di Renzi sono destinati a lasciare il gruppo socialista e democratico per confluire in quello guidato dal presidente francese. Renzi non vuole affatto fondare un altro partitino di sinistra.

Anche per questo ha lasciato alcuni suoi uomini nel Pd e, nell’annunciare la formazione di nuovi gruppi alla Camera e al Senato, parla di «numero chiuso»: non vuole troppi parlamentari in arrivo da sinistra, perché punta a raccoglierne altrettanti a destra. È un’operazione legittima e anche interessante. Nei prossimi mesi Renzi avrà in pugno le chiavi del governo, e potrà farlo cadere quando vorrà. Con due incognite però. La prima è il sistema elettorale: un simile schema ha bisogno del proporzionale; in caso contrario il nuovo partito dovrà cercare alleanze, con il Pd o persino con una Lega post-salviniana. La seconda è il peso elettorale. Renzi a sinistra è sempre stato considerato un intruso.

Ma a destra ha soprattutto un consenso non votante. Per anni molti elettori di sinistra hanno sostenuto che Fini era meno peggio di Berlusconi; ma poi mica votavano Fini. Oggi per un elettore di destra Renzi è meno peggio di D’Alema; ma non per questo voterà Renzi. Quanto al Pd, la «ditta» si libera dell’uomo di Rignano e dell’anomalia che rappresentava; ma rischia di chiudersi nella trincea del 25% (il risultato di Bersani del 2013), forse neanche quello.Del resto, la biografia di Renzi è una sequela di sorprese. Al liceo lo chiamavano il Bomba, perché le sparava grosse. Così almeno raccontò un suo ex compagno in una perfida telefonata a un’emittente fiorentina, Lady Radio.

Avevano sorriso anche i professori, leggendo il suo articolo su «Il divino», mensile del liceo ginnasio Dante di Firenze: «Forlani ha commesso molti errori, anche nella formazione delle liste, e dovrà passare la mano, com’è giusto che sia per un segretario che perde il 5%. La Dc deve veramente cambiare, in modo netto e deciso, mandando a casa i Forlani, i Gava, i Prandini e chi si oppone al rinnovamento…». Era il 1992. Matteo Renzi aveva 17 anni.È laureato in giurisprudenza (con 109; mancò il 110 perché discutendo la tesi litigò con il relatore), ma non ha un curriculum di eccellenza. Parlotta l’inglese con l’accento toscano, ma non ha fatto master all’estero.

Matteo Renzi non è frutto delle élites. È un politico puro. Con i suoi limiti, e con due punti di forza: il fiuto e l’energia. Il fiuto gli ha suggerito a suo tempo che l’unico modo per emergere a sinistra era andare contro la vecchia guardia, cavalcando l’insofferenza della base per leader che non vincevano mai. Poi ha usato contro l’intera classe politica lo stesso linguaggio e gli stessi argomenti della gente comune. Infine ha alzato il tiro contro l’establishment, dalle banche ai sindacati. Si è insomma costruito contro il Palazzo.

Ma il Palazzo gliel’ha fatta pagare. E alla fine anche la gente.Renzi conta ancora molto dentro i meccanismi della politica. Ma nel Paese non è popolare. La sua frase-chiave è: «La vecchia sinistra ha sempre voluto cambiare gli italiani. Ma a me gli italiani piacciono così come sono. Io voglio cambiare l’Italia». Il problema è che a molti italiani non piace più lui.