Ma chi era Bobi?

/ 04.09.2017
di Paolo Di Stefano

Il lavoro di editing è avvolto in un’aura mitica o funesta: alcuni lo accostano all’intervento appassionato dell’ostetrica durante il parto; altri lo ritengono mirato solo all’utilitarismo e all’interesse del mercato. Non c’è via di mezzo. Pochi, in realtà, sanno bene di che cosa si tratti. Un autore manda alla casa editrice il suo libro, quel libro piace (perché è un bel libro e/o perché è un libro che promette buoni risultati di vendita), ma ci sono alcuni punti che non convincono: errori materiali, sviste, incongruenze, lacune. È raro che un romanzo o un saggio siano privi di difetti piccoli o grandi. Dunque a quel punto interviene l’editor, il quale ha un duplice compito. Il più «nobile» è assistere lo scrittore, coccolarlo, scuoterlo se necessario, accarezzare il suo narcisismo, accompagnarlo nell’elaborazione e nei dubbi. Il più artigianale è il lavoro, a posteriori, sul testo, quello che si propone di risolvere problemi banali (di punteggiatura, di lessico, di micro-stile) ma anche di discutere questioni strutturali o passi del libro che appaiono più deboli o poco riusciti, troppo macchinosi nel ritmo della narrazione o dell’argomentazione.

L’incontro tra l’editor e lo scrittore può essere un colpo di fulmine e allora il libro sarà il risultato di quel rapporto felice, anche se travagliato, di reciproca fiducia. Altre volte l’incontro tra l’editor e lo scrittore diventa un rabbioso corpo a corpo e il libro sarà un compromesso tra le posizioni dell’uno e quelle dell’altro.

Perché parlare della figura dell’editor? Perché sono usciti diversi libri che ne rievocano la gloria passata: di quando cioè l’editor era un intellettuale o uno scrittore (Vittorini, Pavese, Calvino, Fruttero, Lucentini, Ginzburg, Sereni, Eco, Filippini…), come oggi accade sempre più raramente. Un editor entrato nella leggenda è stato Daniele Ponchiroli, caporedattore Einaudi dagli anni Cinquanta, sodale di Giulio Bollati e di Calvino, umile «homo faber», interlocutore di mezzo mondo culturale, da Contini a Bobbio. Le Edizioni della Normale di Pisa hanno pubblicato il suo ricchissimo Diario 1956-1958, a cura di Tommaso Munari (6– è il voto d’aria, e di acqua essendo Ponchiroli di Viadana).

A un personaggio mitico dell’editoria italiana, Roberto Bazlen, detto Bobi (1902-1965), è dedicata una monografia o «romanzo di una vita» (voto d’aria 5+) di Cristina Battocletti, appena pubblicato dalla Nave di Teseo. Bazlen è diventato un personaggio-culto della letteratura pur avendo pubblicato pochissimo in vita, e cioè rimanendo una sorta di eminenza grigia delle patrie lettere. Triestino, di padre tedesco e di madre italiana, lettore precocissimo e compulsivo, amico di Saba e di Svevo, suo primo scopritore ed estimatore: lo segnala a Eugenio Montale, altro suo amico, nel 1925 come il solo autore di un romanzo italiano davvero moderno, Senilità. Intellettuale solitario e irregolare, fedele alle amicizie, ai suoi autori e al suo divano su cui stava sdraiato per intere giornate a leggere, Bazlen lascia la sua città per Milano (con Linuccia, la figlia di Saba) e poi, nel 1939, per Roma, dove abita in un monolocale ammobiliato di via Margutta 7. Vive di amori frammentari (tra cui l’austriaca Gerti, che sarà la musa di Montale) e di amicizie durature (con Amelia Rosselli, con lo psicanalista Ernst Bernhard…).

Dopo aver dilapidato il patrimonio di famiglia, tira avanti traducendo dal tedesco e offrendo consulenze editoriali, di cui è il principe: collabora con Adriano Olivetti alla costruzione delle Edizioni di Comunità, con Astrolabio, per cui cura la collana di psicoanalisi (Bazlen è uno dei primi lettori italiani di Freud e Jung, oltre che di Kafka), con Bompiani e a lungo con Einaudi. Bobi è un anticipatore di genio e un infaticabile tessitore di rapporti. Nel ’51 segnala Musil a un altro amico del cuore, Luciano Foà dell’Einaudi, consigliandogli di pubblicare «a occhi chiusi» L’uomo senza qualità… Allo stesso Foà invia una scheda entusiasta sul Demone meschino di Sologub. Spara a zero contro i «frammenti insignificanti» di Robbe-Grillet. Non esita a consigliare Doderer e Gombrowicz, e a esprimere i suoi sospetti a proposito del Gattopardo.

Il suo capolavoro, compiuto in collaborazione con Foà, è la fondazione della casa editrice Adelphi. Era il giugno 1962. Quel «folletto, enigmatico passante sulla terra», come lo definì Solmi, è il protagonista del romanzo d’esordio di Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, del 1983 (voto d’aria 5½): è la ricerca di un’esistenza rimasta nell’ombra intravista da lontano attraverso gli amici e le amiche di gioventù. La domanda che percorre il libro la formulò Calvino nella quarta di copertina, ed è il punto interrogativo che rende inquietante la vita di Bazlen: perché «quell’uomo, pur avendo una coscienza letteraria molto esigente invece di scrivere preferisce agire direttamente sulla vita delle parsone?».