Medici belli, medici così così, medici cattivi (valga per tutti il cinico dottor House), amori tra dottoresse e dottori, senza trascurare infermieri e pazienti. Quando non sono medici, sono forze dell’ordine che senza alcun turbamento assistono ad autopsie (compiute di solito da linde e belle dottoresse con smalto impeccabile e rossetto senza sbavature). Un particolare è molto indicativo: nessuno entra nella sala autoptica col Vicks Sinex sotto il naso, a nessuno infastidisce il lezzo che dobbiamo ritenere insopportabile. La polizia scientifica poi (CSI ha fatto e fa scuola) studia mani tagliate come se dovesse solo scrutare un ananas, da quale parte aprirlo, immerge le mani negli intestini altrui come se giocasse col Pongo. Assistiamo, nel mondo della comunicazione, a una sorta di esorcismo.
Delle malattie ancora non si parla, la politica del «brutto male» non è – scusate il pasticcio onomastico – ancora morta. Della morte, poi, si tace in una maniera imbarazzante. Il caro estinto viene pianto nell’oretta del funerale, ottima situazione adatta a saluti, conoscenze, gossip. Poi viene socialmente ucciso: i temi dei discorsi rimangono due, se il morto lavorava, chi prenderà il suo posto. E naturalmente la divisione dell’eredità. Ma, ma noi ci ammaliamo e moriremo. Impossibile dimenticarsi di questa meta cui tutti tendiamo, anzi i tristi eventi dovrebbero servire da monito e portare a riflessioni alte. Questo però non accade, complice il silenzio e l’oblio di cui si diceva, e complici anche i media. Nei cartoni animati dei Simpson, i bambini impazziscono per i cartoni di Grattachecca e Fichetto, un topo che decapita, affetta, fa esplodere un gatto, in un bagno di sangue e un festival di organi interni. Ovviamente qui si ironizza sui vecchi personaggi come il topo Speedy Gonzales (tuttora nell’uso comune per indicare qualcuno di molto veloce), il gatto Silvestro e, perché no, il coyote Willy il coyote e lo struzzo Beep Beep. Le loro storie non erano a ben guardare poco violente (il coyote cadeva sempre da precipizi altissimi), ma non c’era spargimento di sangue, solo un vincitore e un vinto. Non manca il riferimento alla violenza presente negli attuali spettacoli, e soprattutto giochi, per bambini e adolescenti. I giochi delle play-station consistono per lo più nel catturare, uccidere, torturare il nemico, nel sapere usare le armi e insomma annientare tutto e tutti. Perfino i Pokemon che venivano virtualmente materializzati nel gioco che per un anno ha impegnato grandi e piccini, perfino loro andavano catturati ed eventualmente venduti.
Che cosa hanno a che fare i giochi con le serie dedicate ai medici? Si tratta di una iniziazione a quello che piacerà tanto da adulti: vedere così tanta violenza, morte, esposizione di cadaveri da allontanare da sé il pensiero di morte, violenza, disgrazie di vario grado. Come sempre, la pubblicità è arrivata da tempo ad approfittare di questa cosificazione dei corpi umani. Sono pentita di avere dedicato un mese fa una Postilla all’invasione televisiva del cibo. In verità, la palma di questa triste vittoria va al mostrare parti del corpo umano, non più o non solo sexy, ma malate, o fastidiose. Le signore oltre i cinquanta, per esempio, hanno mille possibilità per mettere minigonne stretch o costumi da pavone-pappagallo. Chi non vorrebbe ricevere un aiutino che copra odori (?) e fastidi? Non sapete come sia fatta una prostata? Niente paura, ecco disegnini didattici che ce lo spiegano.
Ma queste sono banalità, come le pubblicità dei pannolini per bimbi bellissimi e biondi. Il vero dramma, ora è rappresentato da un pallone areostatico a forma di intestino, da un orrendo prato sfiorito e poi rifiorito – sulla pancia –, dallo sguardo triste e preoccupato di chi ancora non ha provato quella marca di fermenti lattici. Non sono forse i problemi intestinali il vero dramma del pianeta? Tutto questo esiste perché, e torniamo alle serie televisive, si vuole esibire il corpo umano con le sue malattie (e infine la morte) proprio così, a pezzi – che non fanno tanta paura – oppure all’interno di un contesto rassicurante.
Il poveretto muore ustionato, ma l’infermiera e l’infermiere capiscono di amarsi proprio nell’estremo tentativo di salvarlo. Esistono fastidiosi problemi, ma fiori e palloncini aiutano a non pensarci. C’è un brutto reparto, dove si curano brutti mali, ma il bambino malato riunirà i genitori, così come maneggiando pezzi di cadavere la polizia assicurerà il cattivo alla giustizia. Tutti questi eventi, tutte queste persone, dovrebbero riempire lo spazio della nostra mente e della nostra sensibilità dedicato, in fondo, all’unica realtà certa.
Entriamo davvero in un ospedale, senza paura di «dar fastidio», andiamo a salutare chi malato è davvero, informiamoci sui bisogni di chi resta, senza ripetere il furbo e inutile «quando tutti se ne andranno, io ci sarò» di Toni Servillo nella Grande bellezza.