Le scuole sono ancora chiuse, ma le discussioni intorno alla loro missione proseguono. Continuano sotto traccia, in sedi poco visibili, sulle pagine di riviste come «Verifiche» (Per una scuola capace di interrogarsi sul proprio futuro) o «Dialoghi» (integrazione della facoltà di teologia nell’Usi). Specchio e cassa di risonanza della società, l’istituzione scolastica si ritrova in prima fila ad affrontare l’onda d’urto proveniente da varie sponde, in primo luogo da quella imprenditoriale, un mondo in piena fibrillazione trainato dalla locomotiva tecnologica. L’inquietudine monta ovunque: nelle famiglie, che spesso abdicano al loro compito perché disunite o disorientate; tra i pedagogisti, alle prese con modelli macchinosi di ardua applicazione; ai piani alti delle autorità politiche, chiamate a indicare la direzione di marcia. E poi ci sono loro, i veri protagonisti, i docenti e gli alunni, gli uni di fronte agli altri, dentro un universo che si vorrebbe al riparo dalle esigenze utilitaristiche, uno spazio ancora (relativamente) autonomo, svincolato dalle sollecitazioni del momento.
Assecondare o no le domande che le famiglie e l’economia pongono alla scuola? È sensato calibrare l’istituzione sui bisogni pratici, fondati sull’istruzione più che sull’educazione? A questi interrogativi le autorità preposte rispondono con continue revisioni della griglia oraria, sia delle Medie che delle Superiori: aggiustamenti e ritocchi che spesso non convincono e che attizzano nuovi conflitti tra i responsabili delle discipline interessate. C’è chi vuole più tedesco, chi più inglese e naturalmente più informatica. E poi più civica come materia a sé stante (così ha voluto il popolo). E pazienza se l’italiano perde qualche ora, come tutte le materie umanistiche, considerate (ma questo è un trend generale) non più centrali nella formazione del discente.
L’ultimo fronte riguarda la geografia insegnata nei licei. L’Associazione Gea, che riunisce i cultori della materia, è intervenuta pubblicamente per denunciare l’intenzione di ridurre la dotazione oraria di questa disciplina alle Superiori: «è l’unica materia in assoluto – osservano nella lettera inviata al Decs – a subire un taglio significativo: non sarà più insegnata nel secondo anno con tutto ciò che comporta (soppressione di contenuti, costruzione di un discorso meno completo, carenza di nozioni di base in particolare sui problemi ambientali…»).
Non è questione di primati: sostenere, per esempio, che lo spazio sia più importante del tempo. Si tratta di riconoscere che geografia e storia contribuiscono entrambe, ciascuna coi propri metodi, a leggere e decifrare l’ambiente che le comunità umane hanno modellato nei secoli. Non per nulla uno studioso come Fernand Braudel parlava di «geostoria», esortando i colleghi a non trascurarla: «Riconosciamolo: la geografia investe con una luce rivelatrice i fili innumerevoli che si intrecciano nella complicatissima trama della vita umana. In qualsiasi ricerca sul passato, in qualsiasi problema di attualità, ritroveremo sempre, costante, ma anche luminosa agli occhi di un osservatore veramente interessato, la zona che abbiamo designato col brutto nome di geostoria».
Ormai le emergenze sono sotto gli occhi di tutti, e per fortuna i giovani hanno iniziato a mobilitarsi, scrollandosi di dosso l’accidia degli adulti. Il ritiro dei ghiacciai, l’assedio della plastica, l’ozono oltre i limiti, l’incremento delle polveri fini, insomma la sensazione che l’ecosistema in cui viviamo somigli viepiù ad una morta gora, obbliga gli educatori a rivolgersi alle scienze umane, articolate in storia, demografia, economia, sociologia, ecologia. A questo plesso di discipline, la geografia contribuisce con gli strumenti che le sono propri e che hanno nello studio del territorio, della sua evoluzione e trasformazione, il terreno privilegiato d’intervento.
Si ridia dunque fiducia e ore d’insegnamento ai geografi, portatori di un sapere che può contare sull’apporto di urbanisti, architetti, paesaggisti e pianificatori. Ovvero di uno sguardo multiforme che abbraccia le basi materiali dell’esistenza (dato fisico) in costante dialogo con l’indefessa opera dell’uomo (dato antropico). Solo così potrà farsi largo una consapevolezza ambientale non effimera, in cui l’emozione contingente per i guasti provocati da uno sfruttamento scriteriato delle risorse ritrova la sua ragion d’essere in una solida conoscenza scientifica degli agenti patogeni che noi stessi alimentiamo attraverso le nostre scelte e i nostri comportamenti.