L’opposizione che non c’è

/ 28.01.2019
di Paola Peduzzi

Le proteste in Ungheria sono una cosa allo stesso tempo piccina e rilevante. Piccina perché molti sostengono che lo slancio iniziale sia già evaporato e che non ci possa essere continuità in un progetto che è semplicemente «contro Orbán». Il problema è noto anche fuori dal regno del premier-padrone ungherese, Viktor Orbán: in Italia abbiamo a lungo sperimentato l’inefficacia del progetto «tutto tranne Berlusconi», in America ora i democratici faticano a trovare una formula omnicomprensiva contro Trump. In Ungheria ogni cosa è amplificata da elementi strutturali, perché Orbán ha un potere enorme, in Parlamento e fuori, nel mondo del business e dei media, e avendo anche rimesso in piedi l’economia dopo la fallimentare stagione di governo di sinistra, sembra davvero invincibile.

Il consenso per il premier è alto, soprattutto fuori da Budapest, e gli animatori delle proteste sanno che ci vorranno anni per poter avere un seguito consistente. L’importante ora è resistere ed è questo lo spirito che si respirava alle manifestazioni della settimana scorsa che per la prima volta sono state organizzate dai sindacati anche in molte città del Paese: a Budapest c’era meno gente rispetto alle mobilitazioni di dicembre, ma il pubblico era più vario, e gli organizzatori insistevano sul fatto che non bisogna fare riferimento a numeri assoluti, ma relativi: la base si sta diversificando.

È la speranza che hanno tutti i partiti che stanno cercando di compattare un’opposizione invero variegata: le bandiere nere del partito di destra radicale Jobbik vicine a quelle rosse del partito socialista, che sta vivendo la stagione più triste della sua esistenza, facevano una certa impressione. Non c’è alcun collante ideologico tra i due partiti, se non appunto la lotta a Orbán che potrebbe non essere sufficiente per tenere vive queste mobilitazioni fino alle europee e poi oltre, fino alle elezioni amministrative del prossimo autunno. La collaborazione di fatto funziona in termini pragmatici: ci si vede lì, quel tal giorno, portiamo in piazza più gente possibile.

Sia i socialisti sia Jobbik raccontano che l’iniziativa è nata in Parlamento dalle parlamentari donne, che sono molto poche e che hanno deciso di unire le forze per una battaglia che è sì politica ma anche culturale: per questo ci tengono molto a mostrare le loro testimonial, la giovanissima Blanka Nagy che legge i discorsi sul palco dal suo smartphone e che usa il linguaggio della sua età, con le parolacce che hanno mandato su tutte le furie i commentatori dei talk show pro governo (che hanno reagito con parolacce pure, senza avere l’alibi di essere ragazzi). Ma anche la popolarità di Blanka solleva dubbi nell’opposizione: ce la si fa a resistere con questi strumenti? A spazzare via il pessimismo ci sono i giovani di Momentum, con le loro bandiere viola e l’urlo di richiamo «democrazia» che è l’unica parola ungherese che suona in modo simile alle lingue mediterranee ed è comprensibile anche a noi stranieri.

Momentum è un partito nato nel 2015, alle elezioni dell’aprile scorso non ha raggiunto la soglia per entrare in Parlamento, ma è molto vivace e si lascia coccolare dai media internazionali: la vicepresidente, Anna Donáth, parla un inglese perfetto (ha vissuto per molti anni in Olanda) ed è richiestissima, uno dei volti più visibili di questa piazza. Lei dice che l’importante ora è continuare a farsi sentire, superare l’inverno e le sessioni di esami all’università che impegnano i più giovani, perché queste manifestazioni, anche se a volte sono più piccole, infastidiscono molto il governo: ignorateci a vostro rischio e pericolo, insomma.

Il fastidio del governo Orbán contribuisce a rendere rilevanti queste proteste, fa da carburante alle mobilitazioni. Una leadership permalosa è manna per i manifestanti, assieme alle crepe che si aprono nel modello apparentemente invincibile di Orbán. La più importante ha a che fare con la ragione primaria delle proteste: la riforma del codice del lavoro che permette ai datori di lavoro di richiedere ai dipendenti 400 ore di straordinari (finora erano 250). Non è una misura obbligatoria, ma rivela un guaio più profondo: la disoccupazione è molto bassa, in Ungheria, è al 3,7 per cento e manca forza lavoro.

La natalità è molto bassa, l’emigrazione è molto alta – perché ci sono i salari più bassi dell’est Europa, più bassi anche di quelli polacchi, e i giovani vanno a cercare fortuna all’estero, in particolare nel Regno Unito – e l’immigrazione è bloccata. Il governo non può che far lavorare di più chi già è impiegato, ma il punto di frattura non è lontano, dicono gli economisti. Se i lavoratori prendono consapevolezza di quanto sono preziosi, per il governo diventerà difficile ignorare la protesta. Fino ad allora, l’importante è resistere, farsi vedere, non dite che non ci avevate notati.