L’opinione pubblica in frantumi

/ 16.10.2017
di Orazio Martinetti

Proliferano gli incontri sull’informazione, sul suo ruolo in una società pluralistica, sul senso del monopolio radiotelevisivo. L’anno prossimo il popolo dovrà esprimersi sull’iniziativa «No Billag», alla quale il governo non ha opposto un controprogetto. Il quadro in cui tutto questo s’inserisce sta mutando rapidamente. Molti concorrenti del monopolio pubblico non nascondono l’ambizione di contare di più, di strappare quote di mercato alla Ssr, pur usufruendo anch’essi di una frazione del canone. Altri affermano che della «televisione di Stato» fanno volentieri a meno, preferendo la Rai e i canali commerciali di Mediaset; altri ancora cercano alternative nelle offerte a pagamento o nella grande rete. L’attacco, insomma, è concentrico.

Il canone annuale, senza dubbio, è elevato, oltre 450 fanchi per radio e televisione. Per una famiglia del ceto medio-inferiore è una bella cifra. Ma che cos’è successo nella stessa famiglia nelle relazioni comunicative con l’esterno? È successo che la dotazione tecnologica è cresciuta a dismisura. Ora perfino i pischelli delle elementari maneggiano telefonini intelligenti dell’ultima generazione, mini-computer portatili in grado di raggiungere ogni angolo del pianeta. Aggeggi sofisticati, in cui la tastiera per la telefonata è solo una delle tante funzioni possibili, e nemmeno la più importante. Sono protesi ormai considerate irrinunciabili, l’interfaccia con il mondo dei giochi, delle immagini, della musica, della condivisione. La scena degli alunni seduti negli scuolabus è eloquente: nessuno più chiacchiera con il compagno, tutti fissano il piccolo schermo, le cuffiette nelle orecchie. Naturalmente tutto questo ha un costo notevole, che va ad aggiungersi al canone; tariffe spesso sottovalutate, perché per la (presunta) felicità dei figli si fa questo ed altro.

Da un punto di vista politico (in senso lato), l’ingresso nell’«infosfera» – la definizione è di Luciano Floridi – sta frantumando la categoria di «opinione pubblica» come si è andata configurando dall’Illuminismo in poi, con la diffusione delle gazzette e la nascita dei circoli di lettura. Nel corso dell’Ottocento, ogni partito o movimento intenzionato ad occupare un determinato spazio fondava un giornale o una rivista, intesa come bandiera e megafono della piattaforma programmatica. Il Ticino non fece eccezione; anzi, cavalcò il mondo della carta stampata con trasporto, un entusiasmo sfrenato che spesso degenerava nella faziosità smaccata con esiti infausti. Emilio Motta scrisse alla fine del secolo che «la stampa che dovrebbe essere una scuola d’educazione civile e morale, un mezzo d’incitamento a nobili propositi, da noi non lo è». E Alfredo Pioda, al tornante del secolo, aggiungeva che ognuno s’era fatto poligrafo, profondendo enormi energie in battibecchi da pollaio: «La stragrande maggioranza degli scrittori ticinesi sono scrittori d’occasione, testi sparpagliati un po’ ovunque, almanacchi, riviste, gazzette, opuscoli…», mille rivoli in cui le forze migliori del paese finivano per confluire in uno stagno.

La vena pubblicistica rimase iperattiva per tutto il Novecento, fino al termine della guerra fredda. Poi la temperatura è scesa di colpo, complici il mutamento della società (migrazioni, mobilità, urbanizzazione) e il rimescolamento della scala dei valori. Le principali famiglie partitiche (liberali, conservatori, socialisti) hanno dovuto fare i conti con l’emersione dell’«elettore d’opinione», una figura volatile, non più legata alla «fede dei padri» e alle relative liturgie. Di conseguenza anche la stampa di partito ha imboccato il viale del tramonto.

Agli occhi di molti fu un passaggio inevitabile: troppi quotidiani, troppi sprechi, troppe parole spese in baruffe ridicole. Ma con la scomparsa degli «organi di…» venne meno anche la cultura politica, i canali propedeutici forniti dai seminari interni, gli agganci con le ideologie che avevano orientato le scelte delle generazioni precedenti.

Oggi l’opinione pubblica appare destrutturata, priva di collanti. La tecnologia che ciascuno porta con sé come una seconda pelle favorisce cavalcate nella Rete prodigiose ma isolate. Per un verso questa nuova tappa nella comunicazione sociale ricorda la «folla solitaria» descritta dal sociologo americano David Riesman negli anni 50, una società in cui ciascun individuo rimane chiuso nel suo orizzonte mentale pur vivendo confuso con gli altri.

Intrecciare nessi e legami per costruire un progetto comune sembra essere l’ultima preoccupazione della folla solitaria.