È uscito sulla «Repubblica» un «Avviso (invito) per chi ama leggere» che annuncia: «Vogliamo fare recensire i libri di cui si parla (e anche quelli di cui non si parla) direttamente a te». L’obiettivo è far diventare critico letterario il lettore comune. Il giornale che più di qualunque altro ha giustamente inveito contro l’incompetenza al potere e l’improvvisazione in politica, deridendo le numerose gaffe di certi ministri e sottosegretari, apre una sorta di Piattaforma Rousseau per la letteratura.
Come se la letteratura non richiedesse, per un giornale che ne scrive, la stessa competenza che richiedono la politica o la scienza. Viviamo, come scriveva nella sua «Amaca» (6–) Michele Serra pochi mesi fa, «in tempi di tramonto delle élite e di cattedre traballanti». È un’epoca in cui l’autorevolezza degli esperti è in crisi e l’arroganza degli ignoranti trionfa. Lo stesso Serra, in una memorabile puntata della sua rubrica, riprendeva una risposta della scrittrice Michela Murgia a Salvini che la accusava di essere una radical chic, epiteto che viene affibbiato non di rado a chi non si vergogna di leggere, magari di studiare, magari di scrivere dei libri, magari di presentarsi come un intellettuale, cadendo così nel fatale sospetto di essere di sinistra. Non c’è calunnia più infangante. Disonesto? No, peggio, radical chic. Depravato? No, peggio, radical chic. Evasore fiscale? No, peggio, radical chic. Mascalzone bugiardo? No, peggio, radical chic. Assassino? No, peggio, radical chic.
Naturalmente esagero, ma è per dare l’idea della gravità dell’accusa, forse pari soltanto all’improperio degli improperi, cioè l’onta del «buonismo». Il radical chic (formula coniata dallo scrittore americano Tom Wolfe nel 1970) sarebbe, secondo i suoi detrattori, colui il quale fa il rivoluzionario da salotto senza sporcarsi le mani, guarda dall’alto le masse e prende posizioni snob e moralistiche senza capire gli umori del popolo. Dal momento in cui sei stato colpito dall’infamia di essere un radical chic diventi un untore da tenere a opportuna distanza, eventualmente da deridere, un po’ anche da compatire, se si può da eliminare. Vedi a questo proposito il romanzo di Giacomo Papi Il censimento dei radical chic (Feltrinelli, 5+), il cui incipit la dice lunga: «Il primo lo ammazzarono a bastonate perché aveva citato Spinoza durante un talk show». È vero che gli esperti a volte non mancano di parlare ex cathedra con tono presuntuoso, ma ormai è di gran lunga più frequente la presunzione degli incompetenti.
Da buon radical chic qual è, Serra scriveva, a sostegno di Michela Murgia (e di sé stesso) parole sacrosante: «Ma leggere è fatica e lavoro, scrivere è fatica e lavoro, imparare è fatica e lavoro, la cultura è fatica e lavoro, migliorarsi è fatica e lavoro, emendarsi da quella bestia che siamo è fatica e lavoro. È ora di rivendicare i libri letti come i calli sulle mani, smettendola di farsi carico del complesso di inferiorità degli ignoranti come se l’ignoranza fosse un problema di chi ha letto, non un problema di chi non ha letto. Hanno avuto il tempo e la maniera per diventare più bravi, più colti e perfino più snob». Senonché diceva quelle parole sulla «Repubblica», lo stesso quotidiano che adesso promette agli incompetenti di assurgere al rango di critici letterari, qualifica prestigiosa che un tempo costava fatica, letture, analisi, studio, cultura, lavoro, autorevolezza.
Anche questo, purtroppo, è populismo, la stessa falsa democrazia diretta della Piattaforma Rousseau. E non è affatto detto che il populismo culturale sia meno nocivo del populismo politico dei 5 Stelle o di quello pseudoscientifico dei No-Vax. Per esempio, ecco la pletora di libri dei blogger e youtuber, meglio se adolescenti o appena pre- o appena post-adolescenti, come la diciannovenne Sofia Viscardi seguita su Youtube da 750 mila adepti, su Facebook da oltre 100 mila, su Twitter da più di 300 mila followers, su Instagram da un milione e mezzo di seguaci: il suo primo libro, intitolato Succede (Mondadori) ha venduto 100 mila copie.
Si dirà: è sempre accaduto che il successo della soubrette, dell’attore, del calciatore, del cantante, del politico venga sfruttato per un potenziale successo editoriale. Quanti attori-scrittori, comici-scrittori, ballerini-scrittori, cantanti-scrittori, sportivi-scrittori, politici-scrittori hanno sempre popolato le classifiche dei libri da che mondo è mondo e da che classifica è classifica. Già, ma quel che non accadeva prima e accade adesso è che il successo non viene misurato sulla qualità: il successo è già in sé ritenuto qualità, in assenza di una critica che si prenda la responsabilità di distinguere. E anche se quel tipo di critica ci fosse, sarebbe subito accusata di avere la puzza sotto il naso, di essere l’espressione del salotto radical chic.
Molto meglio la spontaneità dei critici letterari improvvisati chiamati a raccolta sulla pubblica piazza. O convocati a fare clic sulla piattaforma digitale. Ora tocca ai critici cinematografici, teatrali, musicali, gastronomici… Che i giornali diventino concorrenti di TripAdvisor? Grande idea (2).