Lo style sapin a La Chaux-de-Fonds

/ 08.01.2018
di Oliver Scharpf

Alla faccia di certi orrori natalizi, purtroppo rimasti ancora in giro come le atroci lucine a intermittenza, oggi vado a fare una bella passeggiata style sapin. Style sapin è un termine odierno per la microcorrente regionalista dell’art nouveau nata a La Chaux-de-Fonds nel 1905. Nasce con il corso superiore creato da Charles L’Eplattenier (1874-1946): studi a Budapest e Parigi e poi professore alla Scuola d’arte fondata qui nel 1870 grazie all’industria orologiera per la quale, si sa, è reputata questa città circondata da maestosi boschi d’abeti. Innevati a regola d’arte come quelli laggiù all’orizzonte. «L’abete e la neve sono stati la principale fonte d’ispirazione» afferma L’Eplattenier a proposito di questo stile tra natura e geometria. Neve ne è venuta giù tanta, alte conifere ondeggiano per il ventaccio nei giardini imbiancati delle villette di questo quartiere residenziale un po’ sopra La Chaux-de-Fonds.

Cerco Villa Fallet: opera collettiva degli allievi di L’Eplattenier, tra i quali il diciassettenne Charles-Edouard Jeanneret, futuro Le Corbusier. Prima casa in assoluto – sorta nel 1906 per Louis-Edouard Fallet, incisore-orologiaio – alla quale mette mano per i piani, il modellino eccetera. In zona, tra l’altro, si trovano le sue due più famose case successive: Villa Jeanneret-Perret (1912) e Villa Schwob (1916) meglio note come la Maison blanche e Villa Turque. Il Chemin de Pouillerel sale ripido. Alla prima curva, incorniciate dal tetto spiovente con taglio trapezoidale stile fattorie bernesi, ecco le inconfondibili decorazioni sulle facciate un pomeriggio ai primi di gennaio. Mi concentro sulla facciata sud, più in luce. La geometrizzazione dell’abete è totale. A sgraffito, tre triangolini rosso lampone, uno sopra l’altro, stilizzano al massimo l’abete. Accentuato inoltre dalla sagoma seghettata attorno, alla cui base parte il tronco esile come una striscia. Il tutto color senape, mentre dei triangolini azzurri cadenzano, uno dopo l’altro, questo motivo ad aghifoglie ripetuto a oltranza per tutta la facciata. A far ballare l’occhio attorno, l’abete qui è onnipresente. Segato triangolarmente all’inizio delle travi del tetto, forgiato a ziggurat nel ferro battuto del balcone, mimato di nuovo sulla porta d’entrata. I ghiaccioli appuntiti che pendono come pigne dalla gronda, rendono definitivamente questa casa vernacolare, una casa-conifera.

Freddo cane ma ricostituente, prendo ancora il trecentodieci che mi riporta in stazione. In dieci minuti sono al Musée des Beaux-arts. Inizia a cadere qualche fiocco. Vado diretto alla sala numero sedici, dedicata allo style sapin. Il pezzo forte è la libreria-credenza in mogano honduregno chiaro, cesellata nel 1903 dallo stesso L’Eplattenier: quattro gufi in alto, rami d’abete, pigne, maniglie dei cassetti in basso a forma di lucertole e libellule. In faccia, gli acheni del tarassaco in avorio volano in giro, incastonati nel noce di un altro mobile, opera di Charles-Edouard Gogler. In una bacheca, dodici orologi a cipolla in argento con motivi d’abete ma anche genziane maggiori: fiore simbolo dei pascoli giurassiani. Premiati all’Esposizione Universale di Milano, sono lavori anonimi degli stessi allievi artefici di Villa Fallet. Tranne quello di Le Corbusier che senza problemi di vista, avrebbe seguito il suo destino nel mondo degli orologi da tasca. In pietra, opera di Jeanne Perrochet, tra rami di pino semplificati come orme di uccellini nella neve, spunta geometrico anche uno scoiattolo.

Ora nevica sul serio, tiro su il cappuccio del mongomeri – elegante forma italianizzata da Bianciardi nella Vita agra (1962) – e via. Il trecentodue mi porta al crematorio. Opera d’arte totale realizzata sempre dagli allievi del corso superiore d’arte e decorazione, tra il 1809 e il 1910, nel cimitero della Charrière, alla periferia nordorientale. Sull’arco del portale d’entrata, nella pietra biancastra del Vaucluse, i rami scolpiti da Léon Perrin assomigliano molto ai fiocchi di neve al microscopio. Abbasso la maniglia a forma di foglia di lauro, chiuso. Sempre aperte invece, le porte di diversi edifici d’inizio novecento in centro, le cui trombe delle scale sono decorate da motivi vegetali regionali. Come i ricci degli ippocastani al centosette di rue de la Paix. Cammino ortogonalmente a zig zag nella neve e scovo ancora dei cardi in rue Numa-Droz centotrentasei, stucchi stile platani e foglie d’acero ornamentali sul soffitto nella tromba delle scale dell’edifico al nove bis di rue du Parc.

Giornata a velocità inconsueta tipo giapponesi a Roma o Venezia, al punto che dopo tutta questa abetomania, ricoperto di neve, m’immedesimo un po’ nella parte. In realtà vorrei essere un abete di Douglas, quelli magnetici e magistrali di Twin Peaks. Concediamoci dunque un tè di rosa canina e due éclair al cioccolato sulle poltrone in pelle del tea-room Minerva. Davanti la stazione, sulla neve, di stucco mi lasciano le impronte dei piccioni: involontariamente sono in perfetto style sapin.