Lo Stato e il mercato del lavoro

/ 11.09.2017
di Angelo Rossi

L’economista tradizionale considera il mercato del lavoro alla stregua di un mercato qualunque dove il prezzo del bene (in questo caso il salario) viene fissato dall’incontro della domanda e dell’offerta. Questo incontro dovrebbe venir sancito da un contratto di lavoro. L’individuo che cerca lavoro lo sottoscriverebbe liberamente con il datore di lavoro che meglio gli conviene. Se il lavoratore non dovesse incontrare la posizione che meglio gli conviene avrebbe sempre la possibilità di diventare imprenditore e quindi di crearsi da solo la propria occupazione. Da ultimo la teoria del mercato del lavoro precisa che il salario non è solamente dipendente dal rapporto domanda/offerta di lavoro, ma anche dalla produttività. Nelle aziende con produttività del lavoro più elevata anche il salario è più elevato. E viceversa…

È bene precisare subito, a scanso di equivoci, che questo tipo di mercato del lavoro non esiste, neanche in un paese che, come la Svizzera, salvaguarda come la pupilla dei suoi occhi la libertà di commercio e di impresa. Il mercato del lavoro, in Svizzera come in altri paesi sviluppati, non è concorrenziale. Fino a qualche anno fa era un mercato nel quale i rapporti tra domanda e offerta, e quindi anche il salario, venivano decisi da contrattazioni tra le organizzazioni dei datori di lavoro e i sindacati. Erano i contratti collettivi a fissare, per il loro tempo di durata, le condizioni di reclutamento e di lavoro esistenti in un determinato ramo di produzione. Intendiamoci, questo non escludeva che le aziende si facessero concorrenza. Fermo restando che le condizioni fissate dal contratto collettivo andavano sempre rispettate, niente impediva infatti a un’azienda nella quale la produttività era superiore alla media di offrire condizioni di salario e di lavoro migliori di quelle minime fissate nel contratto collettivo.

In quel periodo d’oro della contrattazione collettiva lo Stato si limitava a proteggere i lavoratori sul posto di lavoro e a dettare condizioni di lavoro per gli apprendisti. Del resto si occupavano i sindacati e le associazioni professionali, o i singoli imprenditori, negoziando contratti collettivi. Parlo di periodo d’oro della contrattazione collettiva perché allora il principio stando al quale le condizioni di lavoro dovevano essere fissate nel negoziato tra i rappresentanti dei lavoratori e i rappresentanti dell’imprenditoria era accettato da tutti. Non che non mancassero iniziative popolari tendenti ad affidare allo Stato il compito di fissare, che so, la lunghezza delle vacanze o dell’orario settimanale di lavoro. Ma queste iniziative venivano sempre respinte con comode maggioranze. Per quel che riguarda la fissazione delle condizioni di lavoro l’elettorato svizzero preferiva la negoziazione tra i partner sociali all’imposizione di regole e divieti da parte dello Stato.

Negli ultimi due decenni la situazione è cambiata. Sempre con lo strumento dell’iniziativa si è cercato di attribuire allo Stato (la Confederazione, in generale, ma anche i Cantoni in qualche caso) nuove competenze regolatrici in materia di mercato del lavoro. Queste riguardavano, in generale, tre aspetti importanti: il salario, la durata del lavoro e la nazionalità della manodopera occupata. Per quel che riguarda il salario c’è stata un’iniziativa federale che intendeva attribuire allo Stato la facoltà di fissare il rapporto tra il salario più elevato e il salario più basso. Iniziative cantonali invece hanno chiesto di fissare un salario minimo, superiore a quello che attualmente viene considerato come la remunerazione minima per sussistere. Le iniziative concernenti la durata del lavoro tendevano a sopprimere il divieto di lavorare nei giorni festivi e, in generale, a liberalizzare l’orario di apertura per negozi e locali pubblici.

Infine ci sono state iniziative, federali e cantonali, che si proponevano di discriminare all’interno dell’offerta di lavoro favorendo i lavoratori domiciliati. Finora tutte queste iniziative o hanno incontrato poco successo, a livello di votazioni, o si sono arenate nella fase della concretizzazione in misure di legge. È un bene o è un male? Chi scrive reputa che sia un bene perché continua a preferire le negoziazione tra i partner sociali a un intervento statale, fosse anche solo per evitare il costo e l’inefficienza dei controlli da parte degli enti pubblici. Ma si rende anche conto che, nonostante gli insuccessi, la politica, oggi, va sempre più nella direzione contraria.