Cara Silvia,
ho quasi quarant’anni, un lavoro che mi piace, tante amiche e uno sport, il tennis, che mi ritempra e diverte. Proprio sul campo da tennis ho incontrato tre mesi fa l’uomo capace di indurmi, per la prima volta, a uscire dal guscio protettivo che mi ero creata, a mettermi in gioco, a tentare la convivenza. Chi mi conosce non voleva crederci, si chiedeva come aveva potuto accadere una simile resa. Non lo so neanch’io: è accaduto e basta.
Lui voleva che andassimo a vivere insieme in un appartamento più grande rispetto ai nostri due, ma io non me la sentivo di abbandonare il mio rifugio e così l’ho invitato a venire da me. Ero entusiasta all’idea e rimango convinta di aver trovato l’uomo della mia vita.
Ma allora perché non riesco a far spazio alle sue cose? Potrei togliere degli abiti che non uso dall’armadio, i libri che ho già letto dalla libreria, le scarpe di troppo dalla scarpiera, lasciargli mettere sul comò le foto dei suoi genitori, morti da tempo ma a lui molto cari. Ma non trovo mai il tempo per un riordino radicale, così lo costringo a vivere un po’ dentro e un po’ fuori dalla mia casa, a non disfare mai la valigia, a sentirsi un ospite, desiderato sì, ma pur sempre un ospite. Perché tutto questo? / Adriana
Cara Adriana,
la tua domanda, apparentemente riguarda la casa, le cose. Ma in realtà è su te stessa che t’interroghi, è il quesito «chi sono io?» a indurti a scrivere e a condividere con noi il tuo malessere. Hai dichiarato indisponibili l’armadio e la libreria ma accogli l’«ospite nel tuo letto», e neppure tu sai spiegare una simile incongruenza.
Seguendo il metodo psicoanalitico che, per comprendere gli enigmi del presente sonda il passato, suppongo che, nella tua prima infanzia, uno snodo precoce dello sviluppo sia rimasto irrisolto. Durante la fase orale, che corrisponde grosso modo all’allattamento, il neonato suddivide la realtà il due parti contrapposte: da una parte il buono che inghiotte, introietta dentro di sé, dall’altra il cattivo che sputa, proietta fuori di sé. La mamma è buona quando è presente, nutre e gratifica, è cattiva quando è assente, non appaga e delude. Questa polarità risulta mirabilmente rappresentata nelle fiabe dove alla fata si oppone la strega, all’amore l’odio.
Solo in un secondo tempo, quando la mamma reale è diventata una presenza mentale, un’immagine salda e positiva, il bambino può accettare l’ambivalenza, ammettere che in realtà la mamma è un po’ buona e un po’ cattiva. Come tutti, compresi noi stessi. Invece tu, l’ambivalenza non l’hai ancora accettata e, nei confronti del partner, alterni atteggiamenti di accettazione e di rifiuto: vorresti introiettare alcune parti di lui e respingerne altre, dire sì o no, entra ed esci, ti accolgo e ti respingo. L’armadio che rimane chiuso, la libreria che non consente neppure uno spiraglio, nessun ripiano sul quale appoggiare le foto di famiglia dell’uomo che hai accolto nella tua vita e nel tuo cuore parlano per te, ti rappresentano. Mettono in scena le tue ambiguità.
Il mobile che nella parte alta contiene gli abiti e, nei cassetti, la biancheria intima, simboleggia l’Io-corpo, la nostra prima identità, la componente più profonda e segreta di noi. La libreria rappresenta invece la parte intellettuale, razionale della nostra personalità. Infine il rifiuto di far posto alle foto dei tuoi «suoceri» rivela la difficoltà di accogliere la persona che ami nella tua storia, di scrivere nella tua biografia un capitolo nuovo. Poiché sei consapevole dell’immobilità in cui ti trovi e avverti il rischio di una crisi affettiva, potresti sforzarti di agire in modo diverso, magari di spostarti in un appartamento più grande. Ma non servirebbe a niente perché il cambiamento deve avvenire prima di tutto dentro e non fuori di te. Siamo fatti per vivere insieme ma, dopo che per tanti anni si sono apprezzate l’autonomia e l’indipendenza, non è facile cambiare registro. Occorre superare la diffidenza iniziale e buttare il cuore oltre la siepe: passare dal corpo narcisistico al corpo di coppia, che non appartiene né all’uno né altro ma alla relazione. Quando i due io, fondendosi, diventano noi, emerge un terzo, il possibile figlio. A quell’appello, che proviene dall’inconscio, si può rispondere sì, no o più tardi, ma è impossibile eluderlo. In ogni caso l’incontro con il progetto procreativo rappresenta il raggiungimento della maturità sessuale ed esistenziale. Il percorso non è agevole ma vale la pena di rischiare e tu, cara Adriana, mi sembri pronta ad affrontarlo.