Lo scrittore animale morente

/ 28.05.2018
di Paolo Di Stefano

A furia di sentirsi ripetere che era il più grande scrittore vivente, è morto. Philip Roth aveva 85 anni, è stato uno dei maggiori scrittori americani del Novecento, da mettere accanto a Faulkner, Hemingway, Bellow e pochi altri, ha avuto ciechi adoratori-adulatori e avversari altrettanto determinati, che, senza capire molto della sua carica eversiva, lo accusavano a rotazione di essere un misogino, un sessuomane, un antisemita, uno scrittore mediocre e politicamente scorretto (per questo gli è stato negato il Nobel), come la famosa critica del «New York Times» Michiko Kakutani, che lo stroncava regolarmente: «solo una giornalista che scriveva recensioni», diceva Roth senza scomporsi. Prendeva sul serio piuttosto gli studiosi e i saggisti, come il suo amico Harold Bloom. Dei suoi trentun libri, basterebbe citarne un paio per segnalare la sua grandezza, da Lamento di Portnoy a Pastorale americana, con il personaggio, narratore e alter ego Nathan Zuckerman, che del suo inventore diede forse la definizione più calzante: «La mia ipotesi è che tu abbia scritto così tante metamorfosi di te stesso da non sapere più né chi sei né chi sei stato».

È stato quasi programmaticamente antipatico, Roth (ma certi rothiani fanatici lo sono ben più di lui), eppure nella sua lunga vita si è sottoposto docilmente a molte interviste in cui via via provava a chiarire i nodi della sua narrativa. A proposito del controverso rapporto con l’ambiente ebraico-americano in cui è cresciuto disse che aveva sperimentato la famiglia e la religione come forma di potere, anche se, precisò, «è molto più complicato di così».

A proposito di metamorfosi. Lamento di Portnoy, del 1969, si apre con un incipit memorabile: «Mi era così profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita». Il travestimento e la maschera sono stati due fili resistenti del suo raccontare, dunque la menzogna e l’inganno del guitto al limite della cialtroneria. Inventandosi un io narrante nevrotico sempre diverso, Roth ha cercato di trasformare in finzione la sua idea del mondo, il suo mondo, fin dal libro di esordio Goodbye, Columbus, i cui racconti, disse, «traevano spunto dall’ethos del mio quartiere assai autoconsapevolmente ebraico», una sorta di piccola nazione fortificata dentro Newark, la città del New Jersey in cui nacque nel 1933.

Era lo scrittore della complessità contraddittoria, Roth: mai nulla gli appariva semplice, e per affrontare la complessità tortuosa del suo rapporto di repulsione e attrazione con l’universo ebraico, con la famiglia, con le donne, con il sesso, con l’America, con la vecchiaia, con la letteratura, utilizzava il grimaldello di uno stile tra l’ironico e il sardonico o il beffardo, che gli permetteva di mostrare il dritto e il rovescio delle cose, il comico delle cose serie e la serietà del grottesco. Il bel saggio di Elèna Mortara che introduce il primo volume del Meridiano Mondadori contenente le sue opere tra 1959 e 1986 si intitola Philip Roth, o del vivere in conflitto. Nel 2012, quando decise di deporre la penna, disse che era stanco di «combattere con la scrittura». Era la sua etica combattiva, la stessa che pretendeva dal suo lettore: «Credo che dovremmo leggere solo quei libri che ci mordono e ci pungono. Se il libro che stiamo leggendo non ci scuote con una botta in testa, cosa lo leggiamo a fare?», diceva Roth travestito da Zuckerman parafrasando l’amato Kafka.

A differenza di tanti suoi colleghi contemporanei che considerano la letteratura un piacevole intrattenimento che accarezzando il lettore può procurare successo e simpatia, Philip Roth viveva il lavoro di scrittore come un incubo, un’attività contro tutti e contro tutto, contro se stessi, contro la vita e contro la morte, contro il proprio tempo e anche contro il lettore: «Un bravo medico non è in guerra col suo mestiere, un bravo scrittore invece è perennemente in lotta col suo lavoro. In molte professioni c’è un inizio, una fase centrale e una fine, La scrittura è un ricominciare da capo continuamente». Roth aveva la certezza che scrivendo si sbaglia almeno quanto si sbaglia vivendo (l’essere umano è sempre una macchia di sporco). Piaccia o non piaccia, Roth ha incarnato il dèmone, il tormento, il disincanto e la testardaggine di essere scrittore (pur consapevole di essere morente) in un mondo che si oppone alla letteratura (morente come lo scrittore). Nell’ultima intervista ha fatto la previsione realistica che un giorno non troppo lontano i lettori dei romanzi non saranno più numerosi di quanto siano oggi i lettori di poesia latina. E prima che la narrativa diventi come la poesia latina, consiglio, a chi non conoscesse Roth, di leggere almeno, oltre ai romanzi citati, Il teatro di Sabbath, La macchia umana, Patrimonio, L’animale morente. E anche Ho sposato una comunista, Il complotto contro l’America, Everyman.