Isola fino a gran parte dell’Ottocento, protagonista assoluta delle Fantasticherie del passeggiatore solitario (1782) di Rousseau e luogo ideale nel 1127 per un priorato cluniacense, per via dell’abbassamento del livello del lago causato dalla correzione delle acque del Giura, verso il 1870, diventa penisola. Eppure, nonostante l’istmo emerso che spezza l’incanto dell’insularità, ne conserva ancora oggi il nome. E per raggiungere l’isola nel canton Berna, con i tempi che corrono, senza i battelli della Società di Navigazione del lago di Bienne, la lingua di terra che parte da Erlach, torna utile. In quarantacinque minuti a passo quasi di marcia, percorro la strada sabbiosa tra i canneti. Assaporo, infine, l’ombra del boschetto dell’ex isola sul territorio di Twann ma di proprietà del patriziato di Berna. Da annotare, l’incontro, un attimo fa, con un’altra ex isola oggi ridotta soltanto a una collinetta segnalata sulle cartine topografiche come Chüngeliinsel. Toponimo in Schwiizerdütsch per indicare l’isola dei Conigli. Isolotto piuttosto, popolato da conigli a partire dall’autunno 1765: idea di Rousseau.
Il benvenuto sull’isola di San Pietro (433 m), St. Petersinsel o Île Saint-Pierre come si legge scritto in piccolo nella didascalia di certe litografie ottocentesche incorniciate negli uffici di un certo gusto, me lo danno le mucche angus. Nerissime e lucide, brucano l’erba beate e rimbambite. Maestre nel godersi il presente o rassegnate, purtroppo, a essere carne da macello. Inverosimile, una camera di Rousseau – scacciato da qui e utile solo da morto e sepolto da sfruttare come attrazione turistica – esiste da visitare, nel convento di un tempo oggi hotel-ristorante chiuso fino a non si sa quando. Dove ci passo accanto ora, per salire al pavillon nel punto più alto dell’isola. Viene naturale chiamarla così, ne ha ancora tutta l’aria. Vigneti di chasselas si distendono addormentati, a ridosso del convento-hotel dal quale spunta un campanile. La vista si apre sul lago calmo, incredibile come gli alberi si rinverdiscano in fretta, in aprile, nel giro di un paio di settimane.
Nella radura di un antico bosco di querce, appare il meraviglioso pavillon ottagonale ricoperto di scandole. Tetto a bulbo, coronato da parafulmine, una persiana chiusa una no, porta aperta. Tengo da parte il piacere di buttarci dentro un occhio e mi sdraio nell’erba, all’ombra di una quercia secolare, con vista sul lago e i vigneti di Ligerz, nel bel mezzo dei quali spicca la chiesa tardogotica riformata. Da quella riva, l’isola, appare due volte, di sfuggita, sullo sfondo delle indagini del commissario Bärlach, svolte quasi tutte in quelle zone, tra le pagine di Il giudice e il suo boia (1952) di Dürrenmatt. Il pavillon prende tutta la scena; con la coda dell’occhio vedo tre stele piantate tra gli alberi. Troppo stanco e affamato per andare a indagare, preparo, invece, il picnic: pane di spelta, mozzarella di bufala, pomodorini datterini, fragole con la panna. Costruito nel 1725, per desiderio di un certo Johann Rudolf Dachselhofer (1691-1756), militare amante di feste campestri e vino bianco, il padiglione isolano con tanto di camino, emana allegria. Le querce e i cinguettii, al contempo, provocano stordimento da pomeriggio di metà aprile e fantasticherie.
Angolo prediletto da Rousseau nei suoi giri sull’isola, era il posto dove gli abitanti delle vicine rive si riunivano per ballare le domeniche di vendemmia. Libri al rogo, un ordine di arresto a Parigi, preso a sassate a Môtiers, il pensatore ginevrino si rifugia qui per sei settimane tra settembre e ottobre. «Mi hanno lasciato trascorrere soltanto due mesi in quell’isola, ma vi avrei trascorso due anni, due secoli, tutta l’eternità senza annoiarmi di un solo minuto» scrive nella Quinta passeggiata, la più ispirata delle dieci passeggiate che compongono Les rêveries: ultima opera, postuma e incompiuta. Prezioso far niente, libri accantonati, nessuna scrivania, rimanere per ore sdraiato nella barchetta al largo, erborizzare qua e là tutto il giorno. Così ricorda il delizioso tempo qui sull’isola, anni dopo, prima di morire, Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) nel pieno della sua paranoia e ormai afflitto da manie di persecuzione.
Anemoni ammantano la radura dove le tre steli, di calcare chiaro, con un cosmogramma sopra – epicentro, pare, di altre venticinque sparse in giro nel Seeland – sono state messe lì da Marko Pogačnik, geomante sloveno classe 1944, inventore della litopuntura. Sbircio nel padiglione e nella penombra, oltre al bel camino di marmo nero, rapiscono lo sguardo le trentadue sedie di legno accatastate: lo schienale è di quelli forati a forma di cuore. M’incammino nel bosco, continuando a girarmi, per abbracciare ancora, da una certa distanza, con la prospettiva del sentiero tra le querce, il pavillon-colpo di fulmine. All’imbarcadero, nascosto in un angolo all’ombra di una siepe trascurata di bosso, trovo il busto di Rousseau posto lì nel 1904, epoca in cui si sono inventati la sua stanza con mobilio posticcio e botola per scappare. Il volto in bronzo, ossidato, con alcune tonalità verderame, avvicinandomi un po’, assomiglia tantissimo all’ex calciatore tedesco Karl-Heinz Rummenigge.