Trent’anni fa non c’era la strada, dal porto a quelle sperdute piantagioni di cocco laggiù nel sud dell’isola, mi racconta mentre dal traghetto osserviamo la costa l’amica che mi ospita nel sud della Thailandia. Ci andavi con una barca di pescatori, o ti facevi quei 6-7 chilometri a piedi lungo la spiaggia, ma solo con la bassa marea. Non c’era luce, in quelle poche casupole, e neppure acqua – quella andavi a prenderla in barca sull’isola maggiore. Ora, al posto delle palme da cocco, alle spalle della spiaggia principale, quella con la sabbia bianca e il fondale basso per centinaia di metri, si affacciano a questo orizzonte tropicale alberghi e ristoranti di ogni genere (di al massimo un piano oltre a quello terreno). Dietro, si accatastano altri negozi e ristoranti di una banale architettura e con un arredamento spesso sciatto, espressione di uno sviluppo rapido e caotico.
Eppure qualcosa di fascinoso resiste. Sarà il silenzio (rotto solo dalle motorette, onnipresenti e indispensabili su un’isola che non conosce mezzi pubblici al di fuori dei taxi)? Neppure nei ristoranti e nei negozi si è disturbati da musiche di sottofondo, i thai, poi, sono silenziosi e di pochi gesti, i turisti di giorno sono in spiaggia, in giro per l’isola, o si riprendono dai postumi dei frequenti party notturni organizzati qua e là sulle spiagge dell’isola (il più famoso, e il più sconsigliato, è quello in occasione della luna piena). Sarà la bellezza, la maestosità, la placidità del paesaggio? O semplicemente lo spirito vacanziero?
Il fatto è che questo luogo è una calamita che attrae e poi riporta qui anno dopo anno un gran numero di persone. C’è chi resta un mese, chi due, chi tre, ogni anno, alcuni da vent’anni. Affittano un bungalow e si cibano per pochi soldi ai ristorantini thai, non sai bene che cosa facciano in questa e nell’altra vita (regola prima: non fare troppe domande). Ma si danno appuntamento qui, al di là dei confini del mondo. Accanto a loro, c’è di tutto, ma predominano i giovani in fuga. Da una realtà che li opprime o che non offre loro grandi opportunità. E prevale il tipo rasato e supertatuato. Questi pochi chilometri quadrati di terra, una lingua schiacciata fra il massiccio dell’isola e il promontorio che ne decreta la fine, impreziosita da spiagge graziose e incastonata in un mare turchese, sono per tanti di loro un rifugio sicuro da un mondo difficile.
Gli si può dar torto? Vedi frotte di giovani israeliani, gli uni – scattanti e muscolosi – vengono a sfogare la voglia di vivere dopo i tre anni di militare (due per le donne), gli altri vogliono sfuggire alla follia di una quotidianità condizionata da guerre e minacce. Vedi russi ed europei dell’est che si barcamenano sfruttando una fugace notorietà su Instagram per vivere senza spese negli alberghetti.
Ma questo luogo, dal nome che contiene il suono di un trillo che fa pensare a Peter Pan, è soprattutto un’oasi di tolleranza. Così la sera, alla jogurteria di Massimiliano, ecco due siriani in vacanza dalla loro stressantissima vita a Dubai in tranquilla conversazione con un israeliano (terapeuta di medicina cinese), un libanese che fa il filo ad una stangona israeliana con le ciglia finte, Simon ebreo americano del Texas abbracciato a Zahar, giovane danzatrice del fuoco iraniana che solo qui può disfarsi del velo e ostentare i suoi (delicati) tatuaggi, il suo corpo giovane, i gioielli con cui esprimere frivolezza e libertà...: «Sono i nostri governi a volere la guerra, non noi» insistono a dirmi questi arabi e israeliani.
Per loro questa è una moderna «isola che non c’è». La trovi dopo la seconda stella a destra, lontano dalle follie e dagli orrori del mondo.