L’identità e il zio

/ 08.08.2019
di Simona Sala

Che cos’è l’identità? Chi definisce il valore della singolarità? Nella mia vita ho due ricordi, e anche oggi potrei elencare diverse imbarazzanti occasioni. Ma il passato ha un maggior peso, nella sua ingenuità. Il primo fatto davvero avvenuto, intorno ai cinque anni: in una situazione di normale folla, non c’era alcuna paura, i bambini molto spesso – ma davvero molto – erano riportati ai genitori, erano vittime solo di faide famigliari (diciamo «solo» non per salvare o giustificare nessuna delle efferatezze, certo accadute e poco raccontate).

Dunque il corso affollato di una città marina: i genitori, i fratelli. Perdo la mano che mi accompagna (già allora affascinata dalle vetrine?) mentre sola mi trovo in mezzo alla folla. Nessuna paura, vedo una mano di uomo abbastanza «anziano» da poter essere quella di papà – allora neppure quarantenne. Mi afferro a quella mano, e si scatena la catastrofe: questo vecchio signore mi dice «ah ah, hai sbagliato!». Che a me arriva come un hai sba-glia-to. L’uomo, divertito, trova subito i genitori in ansia. Di chi era quella mano? Di un estraneo gentile, di cui solo ricordo la mano.

Peggio andò, negli stessi anni, con un affettuoso amico dei miei genitori, che viveva per tutto l’inverno a Ortisei, dove noi trascorrevamo ogni anno una settimana detta bianca, naturalmente in bassa stagione. Quel signore ci aspettava, ci venne incontro, ci accolse con affetto. «Hai visto chi c’è» ripetevano i miei. Lo guardai, e chi era? Però aveva i pochi capelli grigi pettinati all’indietro, ben pettinati, era uomo di mondo. Chi altro godeva tale soluzione tricologica? Mi venne in mente lo zio che chiamerò Piripicchio, che lì in montagna non avrebbe avuto senso. Ma era l’unica possibilità, nella mia confusa memoria. Così, per non deludere nessuno, accolsi il suo affetto con un chiaro «ciao zio», senza nomi, avvolta da un velo di incertezza. Feci così la felicità dell’elegante signore, che esclamò «ecco il zio!» Ebbi un vago senso di turbamento per l’uso di quell’articolo determinativo, il zio.

Ma sono sempre stata severa giudice del linguaggio mio e poi degli altri. Mi vennero dei dubbi, se era lo zio Piripicchio che cosa faceva in Valgardena, e senza l’invadente moglie, che non poteva certo essere nascosta, per il volume corporeo e la chiacchiera inesorabile. Mi maceravo nel dubbio, mentre un signore simile allo zio, commosso fino alle lacrime, ripeteva «ecco il zio, ecco il zio». Come rinnegarlo, come negare questa consanguineità e rovinare il sogno di un uomo benestante ma solo. Per anni mi accolse come il zio, poi la vita ebbe il suo corso.

Una mano, una pettinatura, per un bambino rapidamente diventano identità: papà, zio. Gli studiosi ritengono che l’identità sia data dal volto, impossibile da non distinguere, nemmeno tra gemelli, ogni volto è unico nel corso dell’intera storia umana. Tanto che il termine «persona» è fatto derivare dal greco prosopon, che significa maschera. Per anni mi sono interrogata: come è possibile che la singolarità di ogni essere umano derivi da qualcosa che copre, che nasconde. Poi forse una luce, la maschera in sé è unica. La usavano gli attori, quando da uno sul palcoscenico divennero due, come dice Aristotele nella Poetica a proposito delle innovazioni portate da Eschilo nelle tragedie. La maschera definiva in maniera perentoria il personaggio, la persona: Clitennestra, Edipo, Agamennone, Elena, Prometeo…

Il pubblico quindi, indipendentemente dal comprendere le parole e i canti, sapeva chi fosse in scena, quale storia sarebbe stata raccontata. Una maschera, in cuoio o in terracotta, non nascondeva, ma indicava il personaggio, con assoluta certezza. Da qui il scivolo del senso, da maschera a unicità dell’individuo. Il tema viene raccolto dalla teologia cristiana, che si trova a fronteggiare il difficile problema di un unico Dio in tre persone. Grazie a questa difficoltà, Severino Boezio, decapitato per mobbing nel 425 d.C., arrivò a definire la persona naturae rationalis individua substantia, una sostanza individuale dotata di razionalità. Temi interessanti, oggetto di grandi studi. Ma tutto questo indagare non porta aiuto sul piano pratico. Quando entrai di ruolo a Venezia, a Ca’ Foscari, esisteva un look adeguato al filosofo (le filosofe non contavano, eravamo solo due, giovani e molto diverse nel vestire, nelle scelte di vita, negli oggetti di studio).

I maschi invece avevano la barba, corta, erano facilmente pingui (lo studio…) nessuno di loro era alto. Vestivano giacche di velluto a coste, camicie mai bianche, spesso a righine, e cravatte di quelle che sembrano – sembravano – un calzino annodato al collo. Per i primi tempi, me la cavavo ascoltando il barbuto e sorridendo. Poi dovetti interagire coi colleghi, distinguere almeno quale materia insegnavano. Disperata, ma neanche poi tanto, cercai di catalogare quelle personae, colore degli occhi, lunghezza dei capelli, accento regionale. Fatica immane e a volte inutile, perché poi i filosofi si trasferivano, andavano in pensione. Queste grandi menti volevano omologarsi, indossavano tutti la stessa maschera, quindi baravano. Nessuno di loro fu mai il zio.