Libertà di parola, anche a chi la calpesta?

/ 20.03.2017
di Peter Schiesser

È giusto concedere la libertà di espressione all’estero agli emissari di uno Stato autoritario che in patria la tratta con i piedi, imprigionando centinaia di giornalisti, giudici e decine di migliaia di oppositori? È una domanda che molti governanti in Europa si stanno ponendo, mentre il presidente turco Erdogan invia i suoi ministri all’estero per fare campagna in favore del referendum del 16 aprile con cui il capo di Stato turco chiede l’introduzione di un sistema presidenziale che annulla i poteri del parlamento e del governo. Ed ogni paese europeo dà risposte diverse, a seconda delle contingenze e dei calcoli politici. In Olanda ha fatto scalpore il divieto di parlare in pubblico al ministro degli esteri Mevlüt Cavusoglu e l’espulsione dal paese del ministro per gli affari della famiglia Fatma Betul Sayan Kaya, in Francia il ministro degli esteri turco ha avuto libertà di parola, in Germania si tenta di evitare ulteriori battibecchi diplomatici con Ankara e in Svizzera si cerca di passare all’acqua bassa: il ministro degli esteri turco ha rinviato la sua visita nel nostro paese, dopo che a Zurigo e nella vicina Argovia suoi comizi sono stati annullati dalle autorità locali, mentre il Consiglio federale ha ribadito ab Cavusoglu il diritto di esprimersi, a condizione che simili manifestazioni non mettano in pericolo la sicurezza pubblica.

È stato fatto notare che la legge turca vieta di fare campagna politica all’estero, quindi il caso sarebbe chiaro, in realtà a questo divieto non si attiene nessuno, né il partito al potere AKP né l’opposizione, tantomeno nel clima di paranoia che si è impadronito della Turchia dopo il fallito colpo di Stato del luglio scorso. Erdogan si sente accerchiato, minacciato dall’Occidente (che secondo lui atteso troppo a lungo prima di schierarsi dalla sua parte al momento del golpe), e cerca di compattare gli elettori turchi utilizzando la carta del complotto, propagandando la tesi secondo cui l’Occidente si è alleato con i «terroristi» del movimento gülenista accusati di aver organizzato il colpo di Stato. Considerata l’importanza che la Turchia ha per l’Europa – perché è membro della Nato, perché con l’Ue ha stretto un accordo per impedire l’afflusso di profughi dal Medio Oriente verso l’Europa, perché formalmente è ancora candidato ad entrare nell’Ue, e infine anche perché rappresenta un partner importante con una funzione di cerniera con il mondo mediorientale – è ovvio che non sarebbe saggio rompere i ponti con Erdogan. Tuttavia, se nel caso della campagna politica in vista del referendum turco del 16 aprile è comprensibile che a Berna si voglia concedere libertà di espressione agli emissari del governo turco, è altresì importante ribadire alcuni concetti fondamentali ed impedire azioni illegali su suolo elvetico.

Infatti, nei mesi seguiti al tentato golpe, anche in Svizzera vi sono state azioni di intimidazione e di spionaggio ai danni degli oppositori del governo turco, in particolare dei gülenisti. Secondo informazioni di stampa, un addetto dell’ambasciata turca a Berna, in passato imam di una moschea ad Oerlikon (Zurigo), ha stilato e trasmesso ad Ankara una lista di associazioni e persone che si oppongono a Erdogan, mentre in decine di moschee si fa pressione affinché i fedeli denuncino gli oppositori del presidente. Ha inoltre fatto discutere il fatto che due persone abbiano fotografato e filmato, l’11 gennaio, le persone presenti a una giornata di studio sul genocidio armeno tenutasi all’Università di Zurigo. Il Consiglio federale è consapevole di queste attività e ha fatto presente al governo turco che non vengono tollerate. Ma basteranno questi interventi diplomatici per far desistere il governo turco da simili azioni? C’è da dubitarne.