Due ore di lezione a una dozzina di manager tra i trenta e i quarant’anni. Non saranno italiani, quindi la lezione sarà in inglese e dovrà trattare del valore degli studi umanistici per chi ha studiato e pratica finanza ed economia. Questo è quanto sapevo a proposito della richiesta proveniente dal direttore di un master sull’innovazione. Ho accettato l’invito, anche per il piacere della novità del particolare target, di solito parlo a studenti, oppure a un generale pubblico di adulti se tengo una conferenza o una lezione a qualche festival, oppure ai colleghi, nel caso di convegni e seminari (questo il pubblico più temibile).
Dunque mi sono preparata e a differenza del solito ho scritto una ventina di cartelle, quando si fa lezione in una lingua straniera è meglio avere il supporto di un testo scritto. Anche perché la direzione del master mi aveva avvisato: l’uditorio sarebbe stato di alto livello, giovani vincitori di borse di studio, molto ben preparati. Nel giorno convenuto, un po’ trepidante mi sono avviata verso la cascina ristrutturata sede del master. Per valutare il grado di trepidazione basti dire che ho sbagliato cancello e sono entrata nella casa di allibiti proprietari, che mi hanno indicato la cascina più avanti, in fondo alla via. Quindi di corsa ho raggiunto il posto giusto. In aula trovo i «ragazzi». Mi presento, prendo i fogli, comincio a parlare.
Dopo tre minuti, in un inglese non proprio oxoniense, uno dei presenti mi chiede perché sono lì e chi sono. Ribadisco nome e professione. Un altro chiede di cosa intendo parlare. Ribadisco il titolo della lezione, che riprendo con sempre minor sicurezza. Mi interrompono: non sono interessati alla teoria. Non intendono ascoltare tematiche astratte. Interviene una donna, avvolta in camicione e foulard vari: non ci importa nulla dei tuoi discorsi, noi vogliamo sapere di te. Eeeeh? Sì, la lezione è sul senso degli studi umanistici, tu sei una filosofa, parlaci di te (consento l’uso del tu, perché tanto in inglese sempre di you si tratta, il rispetto per la persona a cui noi daremmo del lei si evincerebbe dall’uso di un linguaggio adeguato al rango, ma in quelle circostanze non era il caso di pretendere raffinatezze). Un fulmine a ciel sereno. Ma capisco: questi giovani manager hanno quindici giorni per «rubare» tutto quello che possono dalle lezioni, dagli incontri, dalla vita milanese.
Metto via i fogli, lascio la cattedra, mi avvicino. Chiedo a loro di dirmi chi sono e da dove vengono, e capisco ancora meglio: vengono dal nord Africa e dal vicino Oriente, sono algerini, tunisini, palestinesi, egiziani. Le donne hanno il capo un po’ coperto da fasce e foulard, ma come se fosse per caso, insomma musulmane all’occidentale. Non hanno tempo, questi ragazzi, per elaborare teorie, per ascoltare astrattezze, a loro servono esempi concreti. Se poi vengono da chi vive in prima persona, meglio ancora, non si tratta di applicare la teoria (appunto) del «caso» costruito ad arte, ma di trasmettere vita vissuta. Quindi, tranquillamente, racconto la mia vita da «umanista», a partire dagli studi universitari.
Fanno mille domande, nasce una tale empatia che mi sento di tirare fuori dalla memoria anche realtà poco belle, come un caso di mobbing che ho dovuto sopportare, ormai venti anni fa, per il quale è stata utilizzata nei miei confronti la solita calunnia della donna facile e bugiarda. Il pubblico si infiamma, maschi e femmine commentano il fattaccio. Cominciano a parlare francese, che per molti è la lingua madre, suggerisco loro di usare con tranquillità la lingua che viene più facile, quindi il cicaleccio diventa anche divertente, si intrecciano inglese, francese, italiano.
Emerge da questi ragazzi un senso di rispetto per la donna che mi lascia senza parole, molti europei avrebbero da imparare, per primi coloro che mi scatenarono contro le solite calunnie, allo scopo di ottenere che liberassi un posto in università in favore di un altro (maschio, ovviamente). Mi chiedono come mi comporterei oggi se mi ricapitasse la disgrazia di essere calunniata in un ambito appiccicoso come la vita privata e intima, sentimentale e sessuale. Rispondo che a distanza di vent’anni ho imparato una cosa fondamentale: proprio perché si tratta di materia collosa, ho imparato che vince chi non si agita, chi sta al suo posto tranquillamente. Allora piansi e parlai con tutti, ottenendo solo che la «notizia» del mio comportarmi «male» arrivasse nei posti più reconditi della penisola.
Oggi forse riuscirei a rimanere salda nel mio avere ragione, almeno ci proverei. Il dibattito è sempre più vivace, la solidarietà di questi giovani manager è davvero bella, continuo a rimanere affascinata dalla libertà del loro pensare, dalla franchezza con cui raccontano la vita delle donne nei loro paesi. Sono trascorse due ore gradevolissime, allo scadere del tempo a nostra disposizione applaudono, io li imito, perché anche loro meritano un applauso, per come mi hanno regalato comprensione, ricchezza interiore, senso di libertà e, perché no, un inatteso affetto.