«Quanti libri! Li ha letti tutti?». È la classica domanda che il bibliofilo, ma non solo, si sente fare dall’ospite che gli entra in casa e vede le librerie zeppe di volumi. «L’esperienza – scriveva Umberto Eco – ci dice che questa domanda ci viene fatta anche da persone dal quoziente intellettivo più che soddisfacente». E aggiungeva, il semiologo, tre strategie di risposta «a questo oltraggio». 1. Interrompere ogni rapporto con il visitatore, replicando: «Non ne ho letto nessuno, altrimenti perché li terrei qui». È un tipo di risposta che solletica il senso di superiorità dell’«imbecille» e quindi sconsigliabile. 2. L’opposto: far precipitare l’interlocutore in un irrimediabile senso di inferiorità esclamando: «Di più, signore, molti di più!». 3. Indurre al «doloroso stupore» dell’importuno: «Quelli che ho già letto li tengo all’università, questi sono quelli che debbo leggere entro la settimana prossima». Naturalmente, di fronte a una risposta così inquietante, il visitatore cercherà una scusa per togliere immediatamente il disturbo e andarsene al più presto.
Quel tizio non sa che la biblioteca, in realtà – era la considerazione di Eco – non è solo un deposito della memoria personale (il magazzino di quel che hai letto) ma è il luogo della memoria universale a cui ricorrere nel momento fatale, per «trovare quel che altri hanno letto prima di te» (voto? 6+ all’intelligenza e all’ironia). Naturalmente poi (o prima) c’è il piacere (fisico), che non risponde a nessuna domanda: perché ti piacciono i libri? Risposta: mi piacciono e basta.
Edmondo De Amicis, l’autore di Cuore, diceva che «una casa senza libreria è come un villaggio senza scuole». Vivere con i libri è l’ultimo libro (Einaudi) di un bibliomane incallito come Alberto Manguel, scrittore e saggista argentino cresciuto in Israele e poi abitante del mondo al seguito del padre ambasciatore: giovanissimo, ha lavorato in una libreria di Buenos Aires, dove conobbe Jorge Luis Borges ormai cieco. Ne nacque un’amicizia e Manguel divenne il lettore di Borges. Ha vissuto con i libri, Manguel, anche come direttore della Biblioteca Nazionale argentina. Dunque, lettore, scrittore, libraio, bibliotecario e bibliofilo, come Eco, detentore di 40 mila volumi (50 mila quelli di Eco), testimone vivente di un famoso pensiero del suo amico Borges: «Uno scrittore scrive quello che può, un lettore legge quello che vuole». Nel senso che il lettore ha una impareggiabile libertà di immaginare e di imparare, di scegliere il suo libro, di ignorare le mode, gli obblighi e le tendenze.
Come si comporta un tale personaggio, patito di libri, se deve traslocare dalla sua enorme casa sulla Loira in un piccolo appartamento di New York? Dovendo scegliere quali volumi portare con sé e quali lasciare in deposito (a Montreal, in Canada), passa in rassegna titolo per titolo: e così facendo riemerge in modo inatteso la memoria personale. È un «rituale di rimemorazione». Perché ogni libro è ciò che contiene, ma è anche ciò che rappresenta nella vita di chi lo possiede. Per esempio, una insignificante edizione anni Trenta delle Fiabe dei fratelli Grimm, uno dei primi volumi che il piccolo Alberto si ritrovò tra le mani, fa riaffiorare, dalle sue pagine ingiallite, innumerevoli ricordi d’infanzia che sembravano sepolti per sempre.
Nel suo memoir (secondo 6+ della rubrica!), Manguel racconta storie favolose che riguardano anche il suo spostarsi di casa in casa, di città in città (Parigi, Londra, Milano, Tahiti, Toronto, Calgary…): «Ogni mia biblioteca è una specie di autobiografia stratificata, in cui ogni libro conserva il momento in cui l’ho letto per la prima volta». Manguel è fiero di non conservare, nella sua biblioteca, nessuno dei best seller che sono stati in classifica sul «New York Times». Però ama riservare uno scaffale a un manipolo di romanzi che considera brutti, quelli usciti dalle scuole di scrittura, privi di immaginazione e di stile. Perché? Deve sempre avere un’idea esatta di che cosa accade quando un libro è solo un prodotto di consumo.
Manguel ricorda che purtroppo, dopo il trasloco fatale, non ha più a portata di mano le opere di Kafka, ma in un taccuino che si porta dietro ha annotato alcune righe della sua corrispondenza. Tra cui questa: «L’uomo legge per fare domande». Giusto, scrive Manguel: «Quando leggo Kafka, sento che le domande che suscita in me vanno sempre al di là della mia comprensione. Sono domande che promettono una risposta, ma non ora, la prossima volta, forse, alla prossima pagina». Ecco dunque una buona ragione per vivere con i libri: per farsi domande le cui risposte si possono (forse) trovare nel prossimo libro; e il prossimo libro risponderà con nuove domande che troveranno altre domande nel terzo libro, e così via. Vivere con i libri in qualche modo insegna a vivere facendosi le domande giuste senza pretendere risposte definitive: «Kafka mi offre incertezze assolute che collimano con molte incertezze mie» (6+++).