L’economia, un argine contro gli autocrati

/ 27.08.2018
di Peter Schiesser

Con tutte le critiche che si possono rivolgere al libero mercato, le sue leggi si rivelano però anche un’insuperabile barriera per capi di Stato megalomani, che si credono più potenti delle leggi dell’economia. Il presidente turco Erdogan ne è l’ultimo esempio, per la sofferenza degli 80 milioni di turchi, che vedono scricchiolare quella crescita economica che avrebbe dovuto traghettarli da un passato di sottosviluppo e povertà ad una nuova era gloriosa.

Legge economica numero 1: in una finanza globalizzata, i capitali si muovono dove i tassi aumentano, in particolare verso paesi con economie forti e garanzie di stabilità. Da quando la Federal reserve americana ha rialzato i tassi, molti capitali e investimenti vengono dirottati dai Paesi emergenti verso gli Stati Uniti. Di conseguenza, in Turchia la mancanza di capitali in dollari sta provocando una perdita di valore della valuta nazionale e alzando sensibilmente i prezzi e l’inflazione al 15 per cento (prodotti e servizi importati e pagabili in dollari, fra carburanti ed energia, costano molto più di prima). La lira turca ha perso dal 40 al 50 per cento del suo valore, quest’anno, e ha subito un crollo in agosto quando è apparso chiaro che il governo non aveva una strategia economico-finanziaria per disinnescare la crisi. Erdogan ha costruito il suo successo politico sulla crescita economica degli ultimi 15 anni ma l’ha ottenuta al prezzo di un forte indebitamento delle industrie private all’estero (per 220 miliardi di dollari), ora che il dollaro è quotato 6 lire queste imprese e banche si trovano a dover ripagare interessi sui debiti molto più onerosi, per alcuni insopportabili fino all’insolvenza.

Lezione economica numero 2: per ristabilire la fiducia di investitori e creditori esteri e attirare nuovi capitali, la banca centrale deve alzare i tassi d’interesse. Erdogan sostiene però che un aumento dei tassi accrescerebbe l’inflazione e vi si oppone decisamente (la banca centrale gli obbedisce e così suo genero Berat Albayrak, ministro del tesoro e delle finanze). In effetti, un aumento dei tassi frenerebbe ulteriormente la crescita, ossia minerebbe la base del consenso per il presidente turco. Ma anche un lento peggioramento della crisi in corso porta allo stesso risultato. Ossia alla lezione – economico-politica – numero 3: quando Stato, banche e imprese giungono sull’orlo dell’insolvenza, diventa inevitabile il ricorso ai crediti del Fondo monetario internazionale. Che però sono sempre legati a riforme economiche dolorose. Anche a questo Erdogan si oppone. Visto che la recente crisi della lira turca ha coinciso con delle ritorsioni da parte di Donald Trump per la mancata liberazione di un pastore statunitense imprigionato in Turchia (raddoppiati i dazi su acciaio e alluminio turchi), dando a Erdogan il pretesto per incolpare altri della crisi economica,  il presidente turco ha fatto sapere che cercherà nuovi amici. Ha alluso alla Russia, ciò che comporterebbe una fuoriuscita dalla Nato, ma Putin non ha soldi da regalare, ha ottenuto dal Qatar promesse per 15 miliardi di dollari di investimenti, comunque insufficienti per invertire la tendenza congiunturale.

Avevamo già scritto che la Turchia era un candidato al disastro economico. In realtà, molto dipenderà dal suo presidente: se resta preda del suo senso di onnipotenza, il conto diventerà salato, se invece Erdogan recupererà il senso della realtà ci sono possibilità che la Turchia possa riguadagnarsi la fiducia internazionale e limitare i danni. Per quanto possibile, Stati Uniti e Europa dovrebbero spingere in questa direzione, non come ha fatto Trump rallegrandosi del tracollo della lira, insensibile ai patimenti della popolazione turca.