Non hai voluto farti pungere dalle api, per forza hai ancora dolore. Hai smesso di prendere i fiori di Bach, non ne vedi le conseguenze? Adesso, a posteriori, queste espressioni mi fanno sorridere. Qualche anno fa mi capitarono doloretti alle articolazioni. Niente di che. Invece molto di che fu la reazione di numerose amiche, che mi incolparono di non voler guarire, di cercare il dolore, perché non perseguivo i metodi cosiddetti naturali per cercare la guarigione. Il veleno delle api: questa sembrava a una di loro la miglior soluzione.
In qualche luogo della Lombardia un gentile e costoso signore ti permetteva di infilare mano e braccio dentro una bottiglia di vetro piena di api, che – sempre gentilmente – avrebbero punto le tue estremità, inoculandoti prezioso veleno, che avrebbe guarito ogni dolore. Attività da ripetersi con l’altra estremità, forse anche con i piedi. Solo il pensiero di questa dolorosissima terapia mi ha fatto tremare le ginocchia, mi sono opposta con tutta me stessa alla proposta della cara amica. Poi mi sono anche ricordata di una puntura d’ape, che incidentalmente sulla spiaggia dell’Argentario si era infilata tra il mio sandalo e il piede (con rispetto parlando, come ancora a volte si sente dire, soprattutto al Sud): si gonfiarono piede e gamba, al pronto soccorso tale dottor Sbrana, cognome tipico di quella zona della Toscana, ma che a me incuteva solo terrore, mi iniettò molto cortisone e mi disse che l’avevo scampata bella.
Allora, ripensandoci, perché uno dovrebbe farsi pungere dalle api, invece di prendere un anti-infiammatorio qualunque? Ma la vera domanda è: perché considerare «naturale» il composto chimico del veleno di api, e invece non naturale un altro composto chimico, per esempio l’ibuprofene o il cortisone? Non sono favorevole all’uno piuttosto che all’altro, meno si usano medicine, di qualunque genere, meglio sarà. Ma perché considerare amico un composto chimico prodotto da animali e invece nemico un altro composto prodotto dall’industria? L’imbroglio, credo, è altrove, è nei mille nomi diversi assunti da medicine uguali. Non può sfuggire come i principi primi delle medicine siano sempre gli stessi, per esempio per l’influenza il paracetamolo e l’ibuprofene, ma i nomi e la consistenza (pastiglie, spray, soluzione effervescente…) li rendono diversi – anche nei prezzi – l’uno dall’altro. Questo sì che è un problema, un danno al consumatore.
Come capita nel caso della moda «green». Industria ed ecosostenibilità: non è un binomio facile, soprattutto quando si parla di moda, uno dei settori che sfrutta più risorse, dall’acqua all’anidride carbonica. Per questo i grandi marchi, già da qualche anno, da quando è aumentata la sensibilità degli acquirenti sui temi ambientali, hanno avviato progetti green. Ogni abito che indossiamo, anche se prodotto in maniera poco inquinante, per essere ben pulito e stirato viene trattato con prodotti chimici che, con i successivi lavaggi, finiscono nelle falde acquifere. Gli stilisti hanno rinunciato alle pellicce vere e agli inquinanti processi di concia, in favore di ecopelle ed ecopellicce. Però molte pelli e pellicce sintetiche sono prodotte con fibre derivate dal petrolio, quindi non biodegradabili. Perché devi dirmi che è «ecopelliccia» una cosa pelosa di plastica, come mi è capitato recentemente provando un cappotto: l’interno è foderato di ecopelliccia blu, diceva la negoziante. Sottintendendo che avrei fatto un favore al pianeta, comprando quel cappotto invece di una pelliccia, che non è mai stata nei miei sogni.
Per la cronaca, l’ho comprato, proprio adesso che le temperature si stanno alzando, quindi in ragione dei saldi mi aggiro per la città rivestita di strati su strati di plastica, ma dai colori raggianti, e ben mi sta. Spesso, poi, scegliamo capi in fibre naturali pensando sia meglio per l’ambiente, ma non è sempre vero, perché le coltivazioni di cotone sono responsabili da sole per almeno un quarto in assoluto dell’uso di insetticidi e pesticidi. Senza contare la chimica usata per lo sbiancamento o altre colorazioni di questo tessuto. È un po’ come quando un prodotto viene venduto in favore di: i tuoi soldi andranno alla tale associazione benefica. Certo, ma in quale percentuale? A volte il cinque, il dieci per cento, chi mai andrà a controllare.
Banchetti natalizi, acquisto di calendari, vendita di maglioni fatti a mano e capispalla senza fodera ma equosolidali, nessuno garantisce l’effettivo raggiungimento del benefico fine. Una soluzione è comprare meno e meglio, riciclare e non buttare gli abiti smessi, soprattutto i capi che non tramontano mai e che non ha senso acquistare ogni anno, come un tubino nero o i jeans. Quindi, si consiglia l’acquisto di prodotti eco-tutto, ma principalmente si consiglia di usare e di passare ad altri, o scambiare, i vestiti che spesso semplicemente non ci piacciono più.