L’eclisse e il secchiello d’acqua

/ 22.04.2019
di Ovidio Biffi

Da un po’ di tempo mi sto appassionando a una distopia nata tre decenni fa e poi eclissatasi. Distopia, stando alla Treccani, significa previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro e, specifica l’enciclopedia, solitamente prefigura situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici negativi. L’aspetto più negativo della distopia che sto seguendo è però l’incomprensibile ritardo con cui è riapparsa e ritornata al centro dell’attenzione. Ultima premessa: la distopia che mi affascina è contenuta nel libro di Neil Postman Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia (edizione italiana del 1993, Bollati Boringhieri), oggi praticamente introvabile nella edizione italiana. Così, piuttosto che cercare il libro e consultarlo in lontane biblioteche, ho pensato di ricorrere a un trucco indicato da Giuseppe Pontiggia: non potendo fissare il sole, anche un secchiello d’acqua può bastare a seguire una eclisse. È più o meno quello che ho fatto io, leggendo un saggio sull’autore (di Cosimo Di Bari) e una recensione del libro pubblicata nel 1993 su «Civiltà cattolica» da Gianpaolo Salvini, gesuita oggi novantacinquenne.

L’eclisse è quella che hanno subito le teorie di Neil Postman, erede della scuola di Toronto di Mc Luhan, un intellettuale complesso che, pur essendo una delle figure di spicco della pedagogia anglosassone, come sociologo e filosofo è sempre stato emarginato e le sue critiche oscurate, anche dopo la morte avvenuta nel 2003. Una marchiatura che oggi sconcerta, dal momento che le sue premonizioni verso le nuove tecnologie e i media moderni risultano straordinariamente utili per capire e interpretare il mondo in cui viviamo. La riscoperta del pensiero critico di Postman – abbozzato nel 1985 nel suo capolavoro Divertirsi da morire – è iniziata prima negli Stati Uniti, richiamata dal ciclone mediatico cavalcato da Trump; poi dall’autunno scorso si è estesa anche all’Europa sull’onda degli scandali che riguardavano Facebook, le ingerenze esterne e nei sistemi elettorali (Cambridge Analytica) e la democrazia digitale del Movimento 5 stelle. Oggi si studia e si cita Postman soprattutto in relazione alla tipologia di società a cui stiamo andando incontro. Archiviata come utopica la visione profetizzata da George Orwell in 1984, con un Grande Fratello che vigila e controlla i nostri comportamenti sociali intervenendo sulle «devianze», eccoci confrontati alla congettura descritta da Aldous Huxley nel Mondo nuovo e all’ipotesi di una dittatura democratica che controlla i propri cittadini non attraverso censure e punizioni, ma attraverso piaceri e accondiscendenza. Neil Postman non ha avuto esitazioni a seguire Huxley, individuando un possibile tecnopolio che, partendo dalla televisione, arriva a controllare un pubblico (per lui «il mondo del cucù») reso insensibile dai nuovi media. In altre parole, Postman intuiva lo scivolamento progressivo e inarrestabile verso una società in cui «il nuovo dio è l’informazione, che le nuove tecnologie consentono di profondere in enormi quantità e rapidissimamente». Archiviata negli anni Novanta perché troppo negativa e apocalittica, la distopia di Postman in realtà conteneva una formidabile premonizione, oltretutto accompagnata da chiare spiegazioni, di quanto stiamo vivendo (e subendo) oggi in materia di informazione e di effetti negativi collegati all’uso dei socialmedia. Con internet ancora agli albori, Postman vedeva il pericolo di un tecnopolio in grado di trasformarsi in dittatura morbida, condizionata dall’eccesso d’informazione e favorito da una vita istituzionale incapace di gestire la grande offerta di distrazione generata dalla tecnologia. Questo il suo monito più preoccupante: «Quando una popolazione è distratta da cose superficiali, quando la vita culturale è diventata un eterno circo di divertimenti, quando ogni serio discorso pubblico si trasforma in un balbettio infantile (…) allora la nazione è in pericolo». Forse non avremo mai la dittatura profetizzata da Orwell, ma diventa sempre più problematico escludere l’avvento di un tecnopolio che assuma il controllo «quando sono crollate le difese contro l’eccesso d’informazione, quando la vita istituzionale non basta più a gestire la troppa informazione, quando una cultura, sopraffatta dall’informazione generata dalla tecnologia, cerca di servirsi della tecnologia stessa».

Davanti a questa distopia che con 25 anni di anticipo annunciava l’onnipotenza degli algoritmi, non resta che chiederci: esistono rimedi per opporsi all’avvento di una simile crisi, oppure è già troppo tardi e possiamo solo preparare la resa alla tecnologia? Postman non offre ricette, ma ricorda che un ruolo fondamentale potrà averlo ancora la scuola, come strumento sia conservativo (dei saperi tradizionali che non devono andare smarriti), sia sovversivo (per imparare a «usare» la tecnologia evitando di «esserne usati»). Egli vedeva però un formidabile ostacolo da superare: il tecnopolio è una sorta di AIDS culturale, e precisamente una «Anti-Information Deficiency Syndrome (sindrome di deficienza anti-informativa)», disturbo assai pericoloso e difficile da combattere se prima non si riesce a trovare una spiegazione al «perché si è cessato di pensare».