Dalla frequentazione di Facebook si sarebbe potuto prevedere il risultato dell’intenso weekend di votazioni del 4 marzo scorso? Per chi lavora nei media è ormai evidente che bisogna abituarsi a considerare questo «bar virtuale» come un luogo significativo per tastare il polso alle attitudini politiche dell’elettorato. Da tempo ormai il fulcro delle comunicazioni istituzionali, delle campagne elettorali avviene qui. Magari all’insaputa degli stessi utenti, che raccolgono opinioni senza sapere di essere l’utilizzatore finale di strategie comunicative partite da molto lontano.
La premessa inevitabile a una riflessione di questo tipo è che Facebook si rivela un luogo di propaganda obliqua e un po’ subdola. Anche chi non volesse essere oggetto di messaggi espliciti legati a una campagna elettorale non potrebbe fare a meno di riceverne. Da un lato le inserzioni a pagamento ci bersagliano indipendentemente dalla nostra volontà. Oltre a questo, il social espone il nostro profilo personale a discussioni di «amici degli amici» che non avremmo mai potuto (e magari voluto) conoscere.
Ma torniamo alla domanda che ci siamo posti lunedì mattina della scorsa settimana. Col senno di poi è facile rispondere «Certo che sì». Se pensiamo all’esito della No Billag, la massiccia presenza di messaggi contrari all’iniziativa non si è potuta ignorare. Come se avessero perfettamente capito l’importanza del fuoco di sbarramento, in molti i sostenitori del «No» hanno rilanciato il messaggio in difesa dell’emittenza pubblica quasi quotidianamente. Del resto Facebook crea un ecosistema in cui amici e amici degli amici finiscono per condividere le stesse idee e la replicazione del consenso è insita in questi gruppi «semi-chiusi». Ma sicuramente si è notata una minore presenza di voci a sostegno dell’iniziativa.
Lo stesso «Certo che sì» vale anche per i risultati delle elezioni politiche italiane. Anche calcolando il relativo distacco con cui le abbiamo osservate da qui, su profili di amici che sono in gran parte utenti ticinesi, l’impressione che, in un mercato dell’opinione politica tutto rivolto alla «voglia di cambiare» (elezione di Trump docet), il Partito Democratico sia stato percepito come un vero sodalizio «conservatore», responsabile di ogni arretratezza e disfunzione sociale. Forse il problema di fondo è il concetto stesso di partito di sinistra: da un lato, l’idea stessa che possa esistere qualcosa «di sinistra» è totalmente fuori dagli schemi mentali odierni. Dall’altro, si nota in modo evidente come una fascia di persone rimproveri, al contrario, al PD il fatto non essere abbastanza di sinistra (e sembra un po’ di risentire le critiche alla socialdemocrazia in voga negli anni ’70).
Anche qui, il fuoco di sbarramento è stato alto. E gli interessati non sono stati in gradi di proporre una replica efficace. Dopo aver liquidato il quotidiano storico, «L’Unità», che pure godeva di un certo seguito, il PD ha affidato a un sito web e a una newsletter il proprio destino. Peccato la ricevessero soltanto i propri iscritti, quelli che erano già d’accordo con la strategia ufficiale. Tutto sarebbe andato diversamente se dieci anni fa il PD avesse dato un’opportunità a Grillo. Forse non tutti ricordano che nel 2009 il comico italiano aveva chiesto provocatoriamente di poter prendere parte alle Primarie del Partito democratico, scontrandosi con le inevitabili resistenze dell’allora classe dirigente. E se allora fosse stato accettato? Come sarebbero cambiate le cose in Italia, oggi? Un’ipotesi da Ritorno al futuro...