Le voci all’appello

/ 10.07.2017
di Paolo Di Stefano

«Se all’inizio la scena era vuota, adesso pullula di presenze. Le vediamo venire avanti in ordine alfabetico, come fossero chiamate all’appello». È il critico Silvio Perrella che introduce così il suo libro di interviste (Insperati incontri, Gaffi editore) immaginando una scena vuota che si riempie di voci. Sono per lo più voci di persone (per lo più defunte), scrittori critici studiosi che – anche se gli incontri risalgono a non più di trent’anni fa – sembrano provenire da un tempo archeologico. Perché gli anni del tempo passato non sono tutti uguali e gli ultimi tre decenni potrebbero essere secoli, tanto è cambiato il mondo, non solo quello letterario. E quelle voci, ancora prima di aprire il libro di Perrella, si meritano un 6 collettivo a occhi chiusi, sulla fiducia. Sentiamole.

A come D’Arco Silvio Avalle, il filologo amico di Maria Corti, di Dante Isella e di Cesare Segre, l’autore di un famoso saggio, strutturalista, su Gli orecchini di Montale. Sapete che cosa diceva nel 1987? Diceva quel che diciamo noi oggi, più o meno. Parlava del degrado del panorama culturale, diceva che era un’epoca in cui mancavano gli eroi, a parte il suo maestro Gianfranco Contini, «sicuramente il successore di Croce». E aggiungeva: «Sono personaggi, gli attuali, che mancano dal mio punto di vista di una profondità morale. D’altronde la letteratura non è solo belle lettere, è anche impatto con la vita reale, sofferenza, impegno».

B come Romano Bilenchi, il grande scrittore (dimenticato) del Conservatorio di Santa Teresa. Il quale ricorda che Pound un giorno gli chiese se anche lui era uno scrittore: «Gli risposi che avevo pubblicato qualche libro di racconti e un romanzo, ma che non sarei mai diventato uno scrittore professionista». Parla del paesaggio che si fa personaggio: «sono l’albero, il fiume, i campi a dire quel che non ti dicono le persone».

C come Cesare Cases, il germanista curatore e traduttore di Thomas Mann, Musil, Brecht, Kraus, Dürrenmatt, critico militante tra i più acuti e puntuti del secondo Novecento: «Io sono nato a pochi isolati di distanza dal Manzoni e nutro un forte rispetto per lui, nonostante il suo cattolicesimo fervido e morboso… ha aggiornato l’italiano, lo ha svecchiato mentre scriveva un romanzo».

C come Vincenzo Consolo, lo scrittore siciliano, autore di un capolavoro come Il sorriso dell’ignoto marinaio, quindi anni fa diceva cose oggi impensabili: «Il Mediterraneo per me era la culla della civiltà occidentale, era il mondo omerico, era il mondo della cultura araba… Ho pensato sempre che la Sicilia, il Mediterraneo fossero i luoghi civili per eccellenza, dove s’erano realizzati un grande scambio di culture, una grande commistione, una reciproca conoscenza».

C come Maria Corti, la semiologa, la filologa, l’amica di Vittorini, la storica della lingua, la studiosa di Dante, l’agitatrice culturale, la maestra di generazioni di filologi, la scrittrice: «Direi che l’umiltà è la prima virtù del recensore. Bisogna mettere in primo piano il libro di cui si parla, non se stessi».

L come Raffaele La Capria, lo scrittore napoletano (oggi 94 anni), autore del romanzo Ferito a morte, che nel 1961 piovve come un oggetto alieno nella letteratura italiana: «Io penso che le cose si distruggono per una specie di consunzione interna, per abuso di sé, per logoramento di sé. L’amore si distrugge con l’amore, la giustizia si distrugge con la giustizia, la religione si distrugge con la religione e il romanzo si distrugge con il romanzo… stiamo morendo di romanzo per troppa romanzeria».

M come Alda Merini, la poetessa pazza che visse e morì sul Naviglio milanese: «C’è chi pensa che sia impazzita di felicità. Se un poeta ama, ama tre volte di più. Io continuo a innamorarmi, sa. Adesso amo un prete di quarant’anni, ma non vado a letto con lui. Ho più di settant’anni, io. Il desiderio e l’amore sono il nutrimento della mia poesia».

O come Ottiero Ottieri, lo scrittore di romanzi industriali (anche lui dimenticato), che fu assunto da Adriano Olivetti come direttore del personale ma anche come scrittore: «Fu un uomo assolutamente eccezionale… mise in quel ruolo uno scrittore, facendogli poi fare lo scrittore… mi diede il tempo materiale per farlo e mi diede una sede a Milano dove potevo lavorare part time solo nel pomeriggio».

R come Ermanno Rea, il narratore di Mistero napoletano, un’indagine dentro la città assediata dalla Guerra Fredda: «Direi che qualunque libro che io scrivo parte da una sorta di certezza e poi questa certezza si trasforma via via in dubbio. Io penso che scrivere un libro sia rintracciare e mettere a fuoco una serie di dubbi».

S come Elvira Sellerio, l’editrice palermitana amica di Sciascia: «Cominciai a torturarlo, chiedendogli aiuto e consigli. Lui era uno che si spaventava moltissimo: “Rischiate la fame”, diceva».

Anche lì la scena era vuota, poi si è riempita.