Non si sa molto dell’etimologia: «sirena» dal greco heiro, quindi incateno, oppure da seirios, ardente, che brucia come il sole? Non è male nemmeno questo dubbio, una sirena ti può legare a sé perdutamente e ti può fare bruciare d’amore, o può innamorarsi pazzamente. Sto riflettendo sulle sirene perché le nostre giornate, anche solo attraverso i telegiornali, sono scandite da sirene di distruzione, di morte. E queste prendono il nome da quelle, dalle sirene della mitologia. Che sono così care agli umani, da avere riempito di sé anche la narrativa e la poesia degli ultimi secoli, per non dire delle canzoni, dei film, delle fiction degli ultimi decenni. Un mito controverso, ora intriso di bontà verso l’umano, ora crudele e spietato; ora tenera figura dei cartoni animati, ora perversa divoratrice di altre creature marine e assassina di maschi imprudenti.
Le prime tracce a noi note sono nel dodicesimo canto dell’Odissea, nella nota scena di Ulisse legato all’albero della nave, dei marinai con la cera nelle orecchie, delle orribili donne-uccello che incantano l’eroe abbastanza astuto da farsi legare, non abbastanza da capire il trucco. Le sirene lo adulano (vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei), lo invitano e intanto si dichiarano non pericolose (nessuno mai si allontana da qui con la sua nave nera, se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; poi pieno di gioia riparte). Il nostro delizioso canto ti dona sapienza, chi riparte lo fa «conoscendo più cose». Null’altro potrebbe convincere di più Ulisse, l’uomo che Ugo Foscolo definì «bello di fama e di sventura» (nel sonetto A Zacinto), l’uomo non solo astuto, ma anche molto molto curioso. Che proprio dopo vent’anni si rende conto di non avere notizie da casa, prima è stato troppo preso, e qualche anno da Circe, e un po’ con Calipso, e quella ragazzina di Nausicaa. D’altra parte, la posta era solo agli inizi, un po’ per mare un po’ per terra, serviva solo a comunicare le cose molto importanti, chi vince e chi perde. Anzi, non si scriveva neppure, la maggior parte delle volte bastava un segnale, il fuoco riflesso da uno scudo, tre riflessi tutti morti, un riflesso butta la pasta che arrivo. Questo soprattutto dopo che il povero Fidippide corse, non si sa con che tempo, i quarantadue e passa chilometri da Maratona ad Atene, annunciò la vittoria e morì, primo martire postale.
Ulisse quindi non sapeva nulla di cosa fosse successo dopo la notte del cavallo e la presa di Troia (presa, si fa per dire: fu bruciata, depredata, rasa al suolo, gli uomini e i bambini uccisi, le donne stuprate e vendute come schiave, i greci erano persone che non lasciavano nulla al caso). Le sirene lo sanno e gli dicono che loro sanno tutto, gli canteranno le vicende di greci e troiani durante e dopo la guerra. Ulisse è il primo uomo a essere tentato dai media: le sirene gli offrono la possibilità di sapere «tutto». Per questo, e non solo per la «voce bellissima», l’eroe chiede di essere slegato, ricorda che gli altri hanno le orecchie chiuse dalla cera, allora fa’ cenno con le sopracciglia, è un ordine, scioglietemi. Vince il buon senso dei marinai, che lo legano ancora più stretto, come aveva loro comandato.
La promessa delle sirene è come quella dei social: saprai tutto. Di scienza e sapienza? Ma no, che importa, saprai tutto di quelli che conosci, non più troiani e greci ma compagni di scuola, colleghi, parenti, conoscenze delle scuole medie, cugini di sesto grado. E poi di chiunque voglia farsi conoscere, perché non è il social a sceglierti, sei tu che decidi di diventare una «cosa pubblica», esponendo immagini, pensieri, sensazioni. È come se noi si andasse dalle sirene, e dopo una faticosa scalata dei loro scogli, peraltro cosparsi di ossa di marinai morti per essersi troppo avvicinati, dopo la faticosa scalata che supera ogni remora – chi per una foto è morto, chi per un commento ha perso un amore, chi per un’imprudenza è stato licenziato... – eccoci a consegnare alle ragazze dal corpo di uccello i nostri segreti. Piango perché mi ha lasciata, eccomi qui strafatto, voglio questo uomo / questa donna e così via.
Loro fanno il loro mestiere, forse sono anche un po’ stufe. Un conto è promettere a Ulisse racconti dalle vicende di greci e troiani, e magari chissà due parole sulla fedeltà di Penelope e la salute del babbo. Un conto è mandare ancora nell’etere volti dallo sguardo eccitato, vestiti comprati nei saldi e, orrore, i piatti che alcuni volgari comuni mortali si accingono a svuotare con gola degna di uccellacci rapaci, quali le ragazze non sono del tutto, ne hanno solo il corpo e non la testa. Loro ormai sono costrette: hanno cercato di essere Ondine, Melusine, Sirenette, di essere belle con la coda di un pesce scintillante, non più ali e zampe da cornacchia. Ma il destino di raccontare i fatti altrui le rende sempre foriere di morte, per una foto, per un commento. Nemmeno il pianto dall’alto di ambulanze e camionette le può consolare.