Le nuove povertà/2

/ 24.02.2020
di Lidia Ravera

Certe frasi è meglio se te le tieni dentro.

Anche se marciscono, e ti avvelenano il sangue. Per una frazione di secondo Betta valutò l’ipotesi di consegnarsi alla disperazione. Mettersi a letto. Ingoiare una manciata di sonniferi. L’avrebbe fatto, ma prima doveva mettere Sara in condizione di mangiare. Anche se non aveva fatto la spesa. Prese una pentola non del tutto pulita e la riempì fino all’orlo. Accese il fuoco. Finché c’è l’acqua, finché c’è il gas… nello scaffale dipinto di rosso, in un allegro contenitore decorato con mazzi di ciliegie , era rimasto quasi mezzo chilo di spaghetti. C’era un barattolo di ceramica con il sale grosso. C’erano sei lattine di pelati Conad, acquosi ma economici. È così che si misura la miseria, mio caro. Anche questo avrebbe detto a Tom. Sempre che Tom si decidesse a tornare, sempre che avesse intenzione di mangiare. A lui non piacevano gli orari dei pasti. Gli ricordavano sua madre. E benché avesse compiuto da pochi giorni 43 anni, si esercitava a contrastare puntigliosamente le regole della sua famiglia d’origine.

Con una sorta di meccanica soddisfazione, Betta apparecchiò la tavola, scolò gli spaghetti, li sistemò delicatamente in una zuppiera bordata oro e li coprì con una adeguata quantità di salsa di pomodoro. Quando Sara suonò il citofono, Betta prese la giacca, la borsa, il cellulare che, dispettoso, si era rifiutato di squillare per tutta la mattinata e uscì di casa. «Ti ho lasciato un pranzetto coi fiocchi», disse, incrociandola sul pianerottolo. Non se la sentiva di reggere l’impatto col senso critico di una tredicenne allevata nel culto della sincerità. Le mandò un bacio scendendo le scale e si dileguò.

Sara le gridò dietro che le serviva una scheda, che non aveva più credito, che doveva restituire venti euro alla madre di Francesca. «Non so se ti sei resa conto che non abbiamo più un soldo», disse senza alzare la voce, quando dalla figlia la separavano due piani di scale, spingendo il portone del palazzo. Appena in strada cercò quella sensazione di libertà e allegria che sempre le provocava muoversi nella città. Non la trovò. Non era lì dove si aspettava che fosse. Sto diventando vecchia, pensò. La città non è più il fondale del mio teatro, la quinta in cui mi muovo recitando la mia bellezza.

Non sono neppure più bella, probabilmente. Il pensiero era così molesto che si impose una sosta davanti a una vetrina per cercare nell’immagine riflessa del suo corpo una rassicurazione immediata. Vide una donna alta e magra, avvolta in un cappotto lungo e stretto in vita, blu, di gran classe, vecchio di 12 anni. Una sciarpa di cachemire beige, regalo di una amica figlia di ricchi. I capelli raccolti in una treccia unica, la frangia ben spazzolata. Quarant’anni che sembrano trenta, disse a bassa voce, citando l’ultimo complimento ricevuto.

A quanto tempo prima risaliva? Un anno? Sì, almeno un anno, quando ancora dava corda a Paolo, prima che Tom le ponesse La Condizione: se vuoi restare con me smettila di fare l’allumeuse, smettila di ronzare micio-micio con chiunque ti dica che hai un bel culo! Micio-micio... quando ancora avevano voglia di accoccolarsi nel lessico di coppia, di duettare, di duellare, di minacciarsi l’un l’altro... ti lascio se... non ti lascio se... ti amerei se... Fino a quando avevano mantenuto la voglia di giocare? Adesso non potevano più permettersela. Sì, ti lascio, e dove vado a sbattermi? La povertà tiene uniti più dell’amore, il bisogno è più forte del desiderio.

Allungò il passo. Doveva arrivare fino a Borgo Pio, salire al terzo piano, M le avrebbe sorriso sulla soglia come sempre. Lei gli avrebbe detto: Mi dispiace dottore ma non posso più venire. Riversare su di lei la mia angoscia è diventato un lusso. Da quanto tempo non la pago? Lei pensa che la pagherò questa mattina? No, questa mattina mi limiterò ad umiliarmi, a farle pena, a confessare il fallimento della mia vita di attrice mai scritturata, che passa di provino in provino, che porta in giro il suo book pieni di foto radiose e sexy che non interessano a nessuno. Suonò il campanello e attese. Il dottor M era lento, si appoggiava a un bastone, dopo essere stato investito da una motocicletta uscendo dal cinema. Quando le aprì la porta non le sorrise, come sempre, la guardò serio, con preoccupazione, che le avesse letto nel pensiero? Era il suo mestiere, in fondo, ed era capace di intuire gli stati d’animo dei suoi pazienti come nessuno. «Che cosa succede, signorina?», disse, porgendole un fazzoletto di lino monogrammato.

Betta lo guardò con l’ammirazione che si dedica a un oggetto incongruo, ma senza prenderlo. Allora, per la prima volta in 11 anni, M la toccò, le mise una mano sulla gola, le spinse la testa indietro e le appoggiò il fazzoletto alle narici.

Soltanto in quel momento, nel vedere il lino candido diventare rosso lacca, Betta si rese conto che stava sanguinando.

Perdeva sangue dal naso. (Continua)