Le avventure a tavola

/ 22.04.2019
di Bruno Gambarotta

Uno dei più vistosi tratti del carattere dei Piemontesi è la diffidenza nei riguardi delle novità e tocca il suo vertice per quanto riguarda il cibo. Ci fu una prima timida apertura con l’arrivo degli immigrati dal Veneto e dalle regioni meridionali, per lavorare nella grande fabbrica. Suonava la sirena per la pausa mensa, gli operai cercavano un posto dove sedersi e aprivano il contenitore di alluminio portato da casa con i vari scomparti per il cibo. Se c’era nei paraggi una macchina che aveva generato calore, gliel’appoggiavano sopra. Era di alluminio, era chiamato il «baracchino» e stava in una borsa allacciata attorno alla canna della bicicletta.

Se accanto all’operaio piemontese andava a sedersi il veneto o il siciliano, era spontaneo sbirciare nel baracchino del collega. Succedeva che il veneto o il siciliano, colto lo sguardo, dicessero: «Vuoi favorire?». Non si poteva rispondere «no, grazie» e iniziavano così i primi timidi scambi. Dicono: la pizza è arrivata a Torino con l’Esposizione di Italia ’61 per il centenario dell’Unità, nel padiglione della Campania alla Mostra delle Regioni. Io c’ero, tutte le sere ci andavo con il mio amico Tommaso Gasti, sperando che la sua fidanzata, hostess al padiglione della Gran Bretagna, all’uscita si portasse dietro un’amica. C’ero, ma non mi sono accorto dell’avvento della pizza napoletana. Forse perché la conoscevo già: nei due anni precedenti, trascorsi in divisa, l’Esercito mi aveva spedito in più occasioni a sud di Roma.

È un luogo comune, ma non per questo meno vero, che il cibo è l’ancora più robusta per incatenarci alle nostre origini; Giovanni Guzzo, mio compagno di corso alla scuola allievi ufficiali, ritornava in caserma dalle licenze con una valigia di prodotti della sua Calabria e si offendeva a morte se noi nordici rispondevamo «no, grazie» alle sue offerte di ordigni antiuomo al peperoncino. Vera o non vera la storia dell’arrivo della pizza, dal 1961 a oggi la ristorazione a Torino ne ha fatta di strada! Per tutti gli anni 60 le trattorie esibivano il cartello «Cucina casalinga», poi qualcuno timidamente fece osservare che non c’era gusto a mangiare fuori se poi ti mettevano in tavola lo stesso cibo di casa tua. Con l’inizio del miracolo economico era arrivato il momento giusto per l’apertura dei ristoranti esotici.

I primi sono stati i cinesi, se non ricordo male. Il racconto dei coraggiosi che avevano oltrepassato quella soglia verteva soprattutto su un dettaglio: ti mettono sul tavolo tutte in una volta le portate che sono state ordinate! Se qualcuno di noi avesse letto la storia dell’alimentazione, avrebbe potuto spiegare agli amici che fino ai primi anni dell’Ottocento il cosiddetto «servizio alla francese» consisteva nella presenza di tutte le portate a tavola, dalle fredde alle calde, dalle salate alle dolci. C’era stato un cambiamento rivoluzionario con l’arrivo delle portate dalla cucina nella dovuta successione grazie alla vittoria del «servizio alla russa», attribuito al principe Alessandro Kovrakin, ambasciatore a Parigi dello zar Alessandro I negli anni 1810-1815. Nacque la necessità di introdurre il menù, una parola che all’inizio indicava solo un appunto privato fra padrone di casa ed esecutore per indicare la sequenza dei piatti da portare in tavola.

Un secolo dopo, nel 1908, una disposizione del re Vittorio Emanuele III impose l’uso di una terminologia italiana per tutto quello che riguardava la cucina. Nacque così l’orrendo termine «lista cibaria». Tornando al nostro ristorante cinese i più navigati suggerivano ai neofiti di ordinare ciascuno piatti diversi in modo di allargare al massimo il ventaglio degli assaggi, in un gioco collettivo che si rivelò un’ulteriore gratificazione del mangiare cinese. Pensiamo, per contrasto, al rischio di violare il galateo quando al ristorante tradizionale si vorrebbe offrire un assaggio del nostro piatto alla moglie o all’amico, con la traiettoria sopra la tovaglia delle forchette volanti e l’assaggio gocciolante trafitto dai rebbi. Sono trascorsi pochi anni da quelle prime coraggiose aperture e sembrano secoli: ora a Torino sono aperti più di 160 ristoranti etnici, tra i quali uno del Kurdistan e uno della Siberia.

La ristorazione sta evolvendo alla velocità della luce, nascono forme ibride, come la macelleria di carni pregiate o la pescheria di prima qualità dove il cliente ha tre opzioni: comprare la carne o il pesce da portare via per cucinarli a casa, farli cuocere dai cuochi del locale prima di portarli via oppure mangiarli sul posto. Sono sorti dei ristoranti in case private, dove si arriva attraverso il passaparola, condotti da professionisti che abbattono in tal modo le spese per l’affitto dei locali. Ho voglia di tentare un esperimento: la cena narrata. I clienti prenotano, si accomodano all’ora convenuta attorno a una tavola rotonda e a turno raccontano agli altri commensali un convivio memorabile a cui hanno preso parte in passato. Il digestivo è offerto dalla casa.