L’autunno del giornalismo

/ 05.02.2018
di Orazio Martinetti

L’aria si è fatta greve nelle redazioni dei giornali. Chi è cresciuto professionalmente tra linotypes e caratteri mobili, tra compositori e rotativisti, sorride sempre meno. Il malessere è sceso nelle viscere. L’impressione è che un’intera era si stia chiudendo, lasciando spazio ad una nebulosa gassosa, indefinibile, inafferrabile. Un passaggio d’epoca vertiginoso, che non prova pietà per le vittime, redattori, tecnici, tipografi. Google che decapita Gutenberg, gli schermi tattili che declassano la pagina stampata a carta straccia. L’allarme è palpabile, articoli dai toni sofferti li abbiamo letti anche su questo settimanale. Fin quando durerà questa lenta agonia? Le testate quotidiane attualmente sul mercato della Svizzera vedono la platea degli abbonati contrarsi a vista d’occhio. Solo la fascia d’età più anziana rimane fedele al quotidiano ereditato dai progenitori. Gli abbonamenti nuovi, stipulati fuori o contro la tradizione familiare, sono rari. Anche la pubblicità, la principale fonte di sostentamento, ha preso il volo, rendendo la foliazione sempre più magrolina e innescando il ben noto circolo vizioso: meno inserzioni, meno pagine, meno contenuti, meno firme autorevoli, meno vendite. Ovunque si cerca di confezionare il prodotto in casa e di ridurre i costi all’osso.

Si tenta di reagire, ma l’eco è flebile. La Romandia, attraversata da soppressioni e fusioni, ha alzato la testa, manifestato, rivendicato, ma non sembra che la protesta abbia scosso l’opinione pubblica. Sull’eclisse di questo comparto, il cineasta Frédéric Gonseth ha realizzato un film a partire dalla morte dell’«Hebdo» (Le printemps du journalisme). La scomparsa del rotocalco ha indignato i lettori maturi, ma non i giovani, ormai abituati all’informazione digitale, leggera e gratuita. Nemmeno la scuola è stata in grado di rallentare la fuga dei nativi digitali dai media storici, insistendo sulla necessità di salvaguardare un giornalismo di qualità. Ma l’aspetto che più ha colpito il documentarista è stata l’assoluta incomprensione della svolta, l’indifferenza per le sorti delle vecchie testate, ormai considerate anticaglia.

Eppure la posta in gioco è cospicua e pesante. Ancora è difficile valutarne portata e conseguenze. Tocca in primo luogo le maestranze, con massicci tagli all’occupazione; ma riguarda anche l’essenza stessa del fare giornalismo oggi, le cui ripercussioni investono l’intera società, la politica, la cultura. Non è una riforma, progressiva e indolore, ma una rivoluzione; non è solo un cambiamento quantitativo (più canali, più strumenti, più dispositivi), ma un salto qualitativo. Il medesimo processo sta investendo il mondo della moneta, con l’esplosione delle criptovalute (bitcoin). Il materiale (carta) è diventato immateriale (sequenze di numeri).

Che cosa succederà alla democrazia, come cambierà il rapporto tra cittadino e istituzioni nei prossimi anni? Il sistema occidentale è nato e cresciuto assieme all’alfabetizzazione, alla moltiplicazione delle gazzette e delle riviste, ai circoli di lettura in cui si riunivano le élites interessate al progresso della società. Tutti noi ricordiamo il Caffè dei fratelli Verri, fucina di idee e di stimoli imprenditoriali della Milano dei Lumi. La costituzione di un partito o di un’associazione comportava l’immediata fondazione di un organo incaricato di diffondere il verbo. Di qui la proliferazione della stampa d’opinione, luogo di polemiche roventi ma anche palestra per la formazione di una cultura politica.

La democrazia occidentale, soprattutto quella elvetica, è una democrazia esigente. Votazioni ed elezioni presuppongono un cittadino informato, maturo, responsabile; un cittadino che non assorbe passivamente i consigli (interessati) provenienti dall’alto, ma che discute, accetta il confronto, mette in fila argomenti ed obiezioni. Altri regimi non si curano affatto di questa pedagogia popolare: si accontentano di organizzare il consenso, infischiandosi dei dibattiti e delle urne.

Stampa e democrazia hanno finora marciato di pari passo, l’una accanto all’altra, la prima tenendo d’occhio la seconda e viceversa. Ma ora questa marcia parallela si sta esaurendo. Altri mezzi, potenti ma perlopiù opachi, hanno invaso lo spazio pubblico. La rete ha impigliato il cittadino-elettore in un groviglio disorientante. Ha inoltre scavato un fossato tra le generazioni, al punto da interrompere il dialogo tra i giovani e gli anziani. Mark Thompson, amministratore delegato del «New York Times», ha prefigurato «la fine del dibattito pubblico», affogato nelle sabbie mobili dell’antipolitica. La transizione mediatica sta insomma intaccando le basi dell’impalcatura democratica. Brutto segno. Primavera del giornalismo? No, qui è autunno, quasi inverno.