Siamo così sicuri che la Brexit sia davvero una rivoluzione? Di sicuro sarà più difficile per un giovane italiano, spagnolo, francese, polacco andare a Londra per studiare o lavorare. E già questo è un bel problema. Inoltre, la reazione di scozzesi e irlandesi fa pensare che il Regno Unito non sopravviverà all’uscita di Londra dall’Europa. Però non bisogna pensare che l’Inghilterra intenda isolarsi. Al contrario, dietro il voto per Brexit c’è la volontà di sganciarsi dalla burocrazia di Bruxelles e dall’egemonia di Berlino per giocare un ruolo a tutto campo nel mondo, anche coltivando un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. Non a caso, mentre Obama ha fatto chiaramente intendere di preferire un’Inghilterra inserita nel sistema di alleanze europeo, Trump subito dopo la vittoria elettorale ha ricevuto nella sua torre newyorkese come primo leader straniero Nigel Farage dello Ukip (partito per l’indipendenza del Regno Unito), e dopo l’insediamento ha voluto subito incontrare la premier britannica Theresa May, per incoraggiarla a proseguire sulla via della Brexit.
Ho intervistato Farage alla vigilia del referendum del giugno scorso. L’avevo inseguito per mezza Inghilterra, dopo aver avuto il suo numero dal portavoce alcolizzato in cambio di tre pinte di birra, bevute al Westminster Arms, il bar di fronte al Parlamento. Alla fine l’ho trovato a Folkestone, nel Kent, dove abita, e dove sbuca il tunnel sotto la Manica: la porta dell’Inghilterra. In attesa di intercettarlo, ho seguito il telegiornale al bar del paese. Quando passarono le immagini degli sbarchi di Lampedusa, che per un inglese è un posto remoto dove si fa il bagno quando da loro fa freddo, gli avventori si guardarono l’un l’altro terrorizzati, come a dire: questa è roba vostra, non ci riguarda. Mancavano due settimane al referendum, e mi convinsi che Brexit avrebbe potuto vincere, come scrissi in fondo al pezzo. Farage mi parlò della nuova Europa che sarebbe seguita alla vittoria sua e di Grillo. Questa più o meno la sua teoria: «Il Paese-chiave, l’anello debole della catena che imprigiona i popoli del continente, è l’Italia. Fine anni Novanta: Prodi e Ciampi portano Roma nell’euro. Io tengo il mio primo discorso a Strasburgo e dico: “L’euro è fatto per il Nord Europa, non per i Paesi mediterranei: li getterà in rovina”. 2004: Prodi porta in Europa i Paesi ex comunisti, che non sono ancora diventati vere democrazie; e oggi la seconda lingua di Londra è il polacco. 2008: Berlusconi viene eletto in libere elezioni e prende le distanze da Bruxelles e da Berlino. 2011: un colpo di Stato destituisce Berlusconi e lo rimpiazza con un governo fantoccio, affidato a Monti, uomo della Goldman Sachs; che al governo ha fatto quello che la Merkel gli ha detto di fare. Ricordo quando arrivò a Strasburgo: tutti si alzarono ad applaudire, come se fosse entrato il messia. Io rimasi seduto. Mi dicevo: l’Italia è un grande Paese, non può farsi trattare come una colonia tedesca. Infatti alle elezioni del 2013 Grillo è il primo partito. 2015: referendum in Grecia; il popolo vota no all’Europa, ma Tsipras si piega. Il 2016 è l’anno della svolta. Viviamo un momento cruciale della storia. Grillo e io distruggeremo la vecchia Unione europea. Il 19 giugno i 5 Stelle eleggeranno il sindaco della capitale e cambieranno l’Italia. Il 23 giugno la Gran Bretagna uscirà dall’Unione e cambierà l’Europa. Avremo un effetto domino. Dopo di noi gli altri Paesi del Nord se ne andranno uno dopo l’altro. Per prima la Danimarca; poi l’Olanda, la Svezia, l’Austria. Questo referendum è l’evento più importante degli ultimi cinquant’anni. L’Europa ne uscirà disintegrata».
Farage su un punto aveva ragione: Brexit ha vinto. Eppure la sua profezia è destinata a restare incompiuta. Perché il 2017 potrebbe rivelarsi l’anno della sconfitta dei populisti, dall’Olanda alla Francia alla Germania. Se poi davvero la Scozia lascerà il Regno Unito per unirsi all’Europa, potrebbe essere l’inizio della riscossa. L’unico Paese dove i populisti potrebbero vincere davvero è l’Italia.