Ci sono anni che scivolano leggeri come piume, e altri che pesano come macigni. Il 2016 è uno di questi. Temo che sarà ricordato come uno degli anni più importanti della nostra vita. Gravido di conseguenze che non riusciamo ancora a immaginare. L’anno della grande rivolta.
Da tempo scrivo che il segno della nostra epoca è la ribellione contro l’establishment, le élites, le forme tradizionali di rappresentanza e di comunicazione, i sindacati, i partiti, i media. Non si poteva pensare che questo spirito del tempo che attraversa il pianeta, che produce fenomeni diversi come Grillo e Trump, Marine Le Pen e Salvini, Alternative für Deutschland e Podemos, non portasse capovolgimenti clamorosi nelle urne. Eppure Brexit e Trump hanno comunque colto tutti di sorpresa.
Sono stato a Londra dieci giorni prima del referendum. Tutte le macchine avevano gli adesivi del Leave: uscire dall’Unione europea. Non c’era un tassista che votasse per il Remain. La rete era al 95% contro l’Europa (anche se la maggioranza dei giovani ha poi votato a favore); ma la rete è sempre contro per definizione, sono sempre tutti ladri, tutti uguali: tutti colpevoli, nessun colpevole. Nel Kent, dove vive il grande vincitore del referendum, Nigel Farage – che si è poi dimesso dalla guida del suo partito: missione compiuta –, l’onda isolazionista era ancora più forte. L’appuntamento era al pub di Folkestone, punto d’arrivo del Canale sotto la Manica e quindi dei treni dal continente. Un luogo simbolico: la porta dell’Inghilterra, a dieci chilometri dalle scogliere di Dover che da secoli la proteggono dagli invasori. Al pub, tra una partita di calcio e una di rugby, davano il telegiornale. C’erano le immagini degli sbarchi di Lampedusa. Gli avventori si guardavano l’un l’altro sgomenti, come se i barconi stessero per attraccare nel bel porticciolo turistico del paese. Anche prima di Brexit Londra era fuori da Schengen, nessuno di quei migranti stremati sarebbe mai arrivato in Inghilterra. Eppure la reazione degli inglesi era chiarissima: questa è roba vostra; Lampedusa per noi è un posto remoto, dove si fa il bagno quando qui si gela, e tale deve restare; noi non c’entriamo. La cameriera del pub era polacca. Gli avventori la conoscevano e avevano simpatia per lei. Ma il retropensiero è che tutti questi camerieri polacchi, italiani, spagnoli, romeni, francesi tolgono lavoro ai ragazzi di Folkestone.
Ancora poco tempo fa, gli Stati europei erano grandi in un mondo piccolo. Ora sono piccoli in un mondo grande. Nel pianeta globale contano solo gli Stati continentali: gli Usa, la Russia, la Cina, l’India, il Brasile. E l’Europa, se ci fosse. Ma se l’Europa fa stare peggio gli europei, non ha futuro. Se nel 2017 vincerà Marine Le Pen – non lo credo, ma ormai non ci si può più stupire di nulla – l’Europa sarà finita. Se vincerà François Fillon, come probabile, allora si andrà avanti così: maluccio. L’Europa non è una confederazione; è una sovrastruttura. Me ne sono accorto quando Elisa Di Francisca ha fatto sventolare la prima bandiera europea alle Olimpiadi: il fastidio delle autorità sportive; l’esultanza degli Schulz e dei Verhofstadt. Come se l’Europa non fosse il futuro, l’organizzazione che i popoli europei si sono dati per difendere i propri valori e i propri interessi, ma una setta di burocrati e politici che mangiano ostriche a Bruxelles e foie-gras a Strasburgo.
Diffidate di quelli che ora dicono: io l’avevo detto. Neppure Trump e il suo staff pensavano di vincere. I repubblicani lo consideravano un impiastro; invece la sua candidatura ha allargato la base del partito e ha eroso quella democratica negli Stati postindustriali del Nord e del Mid West. Non c’era un sondaggio, tranne quello del «Los Angeles Times», che lo desse vincitore. Non c’era un sondaggio che desse anche solo in bilico il Wisconsin, dove Trump ha prevalso.
Il No del referendum italiano è tutta un’altra storia. La vittoria del No era ampiamente prevedibile e prevista. Non c’era un sondaggio che non desse il No in vantaggio, sia pure non 60 a 40. Contro Renzi c’erano tutti i partiti, compreso metà del suo, e tutta la classe politica, con poche eccezioni. Ma non hanno vinto loro; hanno vinto il disagio, la protesta.
Il mondo globale ha fallito. E ora si tenta di chiudere le frontiere e alzare muri, come quello al confine con il Messico. Forse è troppo tardi. I manager continuano a ricevere buonuscite con cui si potrebbero pagare per anni i salari di tutti i loro dipendenti. La rivoluzione digitale continua a bruciare posti di lavoro, mentre i nuovi padroni delle anime sono venerati dal culto popolare, anche se pagano malvolentieri le tasse. Non ci sono colpevoli, ma solo capri espiatori. La protesta ha vinto e prima o poi andrà al governo. Ma cosa farà? Il reddito di cittadinanza, mille euro a tutti in cambio di nulla? E chi li paga? I migranti a casa: e chi ce li riporta?
Né si può chiudere il bilancio senza ricordare il terrorismo. Il 2016 è stato aperto e chiuso da due attacchi al Paese più solido d’Europa, la Germania: a Capodanno contro le donne di Colonia; a Natale contro il mercatino di Berlino. In mezzo, l’attacco al rito laico del 14 luglio francese. Tenere i nervi saldi non basta; ma è la prima cosa da fare nel 2017.