Che ne saprei dell’amicizia se non avessi (avuto) grandi amici molto diversi tra loro. Ci sono amicizie fatte per andare d’accordo grazie alle somiglianze e ci sono amicizie fatte per andare d’accordo grazie alle dissomiglianze.
Con Franco è stata una lunga amicizia del secondo tipo: ci siamo conosciuti litigando quando avevamo 11 o 12 anni. Il litigio avvenne nel grande parcheggio del Campo Marzio per uno stupido scambio di battute tra noi tre fratelli e lui: ma si capovolse subito in alleanza quando un gruppo di ragazzi prese a insultarci («Tagliàn badòla!», «terroni») e Franco li mise in fuga con il suo impeto a volte eroico. Era un duro, il Bianchi: così l’abbiamo chiamato per anni, con il solo cognome. Era stato allievo di nostro padre – che all’epoca insegnava latino al ginnasio di Lugano – e per questo l’avrebbe chiamato per sempre «il sore».
Eravamo molto diversi, eppure si stabilì con Franco Bianchi una fratellanza inossidabile durata fino alla scorsa settimana, quando un tumore micidiale se l’è portato via a 63 anni. Era un quinto fratello, sempre pronto ad accorrere, a partecipare, a ridere, a piangere con noi. Abbiamo riso tantissimo, e non c’è niente di meglio, nell’amicizia, che il saper ridere insieme. Ridendo, abbiamo fatto un sacco di cose insieme, i chierichetti, i cantori nella corale di Santa Teresa a Viganello, i lettori a messa… E un sacco di stupidaggini: le prime sigarette fumate di nascosto erano Brunette che sapevano di prugna, i primi baci veri rubati alle coriste, le vacanze estive in Sicilia sempre a caccia di amori improbabili, le gare a chi mangiava più pizze in una sera, i soliti campanelli suonati e le fughe, le telefonate finte ai vicini di casa.
Nel pieno della Guerra Fredda, Franco era un giovane militarista, mentre noi eravamo pacifisti e ingenui ribelli a tutto: credeva nell’esercito e gli piaceva presentarsi agli amici facendo il saluto militare sul suo motorino Rixe beige e azzurro, ben sapendo che avrebbe scatenato «ghignate» e sfottò. Era un provocatore che prendeva in giro anche se stesso nel mostrarsi devoto all’America «guerrafondaia» e alla Svizzera neutrale e ipermilitarizzata. Un amico con il quale era meglio non parlare di politica, ma ipersensibile alle ingiustizie. Era un simpatico guascone dal cuore in mano, uno «scorpionaccio orgoglioso» si definiva, pronto a battersi fisicamente a difesa dell’amicizia. Era anche molto più alto e bello di tutti noi, con la barba nera da adulto e solo il fatto che aveva il Rixe sin dai 14 anni lo rendeva autorevole. Era stato il primo di noi a fare l’amore, durante una vacanza estiva a Dübendorf, faceva strage di cuori con la sua spavalderia. Un giorno ci lasciò a bocca aperta arrivando su un’auto tutta sua, un’enorme vecchia Peugeot ricevuta da uno zio. Poi ebbe un’invidiata Alfasud metallizzata oro. Fece le scuole commerciali e cominciò subito a lavorare in un’agenzia di viaggi, mentre noi ancora arrancavamo al liceo.
Grazie all’abilità di stenografo e di dattilografo, cominciò prestissimo la gavetta al «Corriere del Ticino», assistito dal caporedattore della cronaca luganese Mauro Maestrini, un maestro gentile vecchio stampo divenuto amico fedele. Si innamorò della cronaca. Passava le notti sulle auto della polizia, sempre con il bloc notes in tasca e all’alba correva in redazione a scrivere brevi notizie sulla piccola delinquenza locale o sugli incidenti del Sottoceneri. Batteva a macchina come un ossesso, con tutte le dita e senza una correzione, immaginandosi reporter di nera a New York o a Los Angeles, dove andò tante volte per respirare quella che enfaticamente considerava la sua aria tornando con racconti per noi strabilianti.
La sua aria era invece il Ticino, dove conosceva tutti e tutti lo conoscevano: lasciò troppo presto il «Corriere», dove si siglava – fbi –, deluso e incompreso. Se doveva dire no diceva no pagando di persona, passando per un rompiscatole e bastian contrario. Sembrava uno spaccone ed era un buono, un mediatore per gli altri ma non per sé, un testardo generoso, che al ristorante voleva sempre offrire a tutti. Era fiero di aver messo una buona parola per la mia assunzione al «Corriere del Ticino», nel 1984. Un mezzogiorno del 19 luglio 1985 il telex impazzì, sputando forsennatamente notizie, era il giorno della tragedia di Tesero, in val di Stava.
Partimmo in coppia da inviati speciali, passammo la notte tra le ruspe che scavavano le macerie, con i piedi nel fango e sopra i morti che venivano recuperati a pezzi. Dalla melma tirai fuori il romanzo di Alba de Cèspedes intitolato Nessuno torna indietro. Io che non sapevo cos’era la cronaca andavo cercando le emozioni della tragedia, lui raccoglieva i dati: quanti morti, quanti soccorritori, quali responsabilità. Fu la prima lezione di giornalismo.