L'America cede il timone della globalizzazione

/ 30.01.2017
di Peter Schiesser

I dubbi sono spariti: Donald Trump fa sul serio. E fa quello che aveva detto in campagna elettorale. Con un decreto presidenziale, senza consultarsi con il Congresso né con il mondo economico nonostante gli enormi interessi in gioco, ha ordinato il ritiro degli Stati Uniti dal Partenariato Trans-Pacifico (TPP). E sotto l’ombra del muro che Trump vuole rafforzare e completare alla frontiera con il Messico, traballa anche l’accordo di libero scambio con Canada e Messico (NAFTA). Irritato dall’aggressività di Trump, che vuole accollare ai messicani il costo del muro, il presidente Nieto ha annunciato giovedì scorso che non si recherà alla Casa Bianca il 31 gennaio, mentre già in Messico si riflette sull’opportunità di ritirarsi dal NAFTA anziché sottostare ai ricatti americani, molto più onerosi, economicamente parlando, di una fuoriuscita dall’area di libero scambio. Brutte premesse per le future relazioni tra i due paesi confinanti, così intimamente legati.

Senza gli Stati Uniti, il TPP è morto. L’accordo prescrive una massa critica, considerato che il Giappone ha subito reagito mettendo in dubbio la sua partecipazione, senza questi due colossi economici non la si raggiunge. E questo fa il gioco di Pechino. Barack Obama aveva voluto il TPP per isolare la Cina, almeno  finché non avesse ottemperato a determinati parametri. Il TPP è infatti un accordo di libero scambio «progressista», prevede degli standard alti in materia di diritti sociali e dei lavoratori, di produzione ecologica, di protezione dei diritti d’autore, che oggi la Cina non rispetta. Ora Pechino, nella sua strategia di accordi regionali, può proseguire senza troppi ostacoli sulla via di un accordo di libero scambio con i paesi del Sud-est asiatico (RCEP) e di un complementare accordo di libero scambio (FTAAP) con la ventina di paesi dell’Apec, l’area Asia-Pacifico. Il FTAAP non prevederà di certo gli alti standard del TPP.

Con il decreto presidenziale di Trump, gli Stati Uniti cedono il ruolo di guida della globalizzazione economica, rinunciano a determinarne gli standard. Ma la globalizzazione non si fermerà, perché i paesi e le potenze emergenti, grandi profittatori di un quarto di secolo di accresciuto libero scambio, non vorranno rinunciare a questo motore di crescita. Cambieranno ile sigle e i flussi all’interno delle aree di libero mercato, ma il fiume degli scambi troverà nuove vie. Con regole diverse, però, che si può prevedere saranno maggiormente dettate dalla Cina. La svolta protezionista dell’America inaugura di fatto la fase II della globalizzazione economica.

Con il senno di poi (ma c’era chi metteva in guardia fin da subito contro certi pericoli), si può dire che la fase I della globalizzazione è stata male architettata: hanno prevalso su tutto gli interessi economici, la voglia di arricchirsi. I lavoratori delle fabbriche impiantate da aziende occidentali in paesi del terzo mondo avevano salari infimi, condizioni di lavoro al limite e oltre lo sfruttamento, nessuna protezione sindacale, la terra per edificare le fabbriche veniva confiscata con la promessa mai mantenuta di un indennizzo, l’ambiente circostante era inquinato? Poco importa. Le grandi società avrebbero fatto buoni guadagni e i dirigenti del paese in questione avrebbero intascato (spesso nel senso personale del termine) i soldi delle imposte e avrebbero goduto di ricadute economiche comunque non indifferenti per la popolazione, abituata anche a condizioni di lavoro peggiori. Il costo del lavoro in Occidente diventava eccessivo? Si poteva delocalizzare. E così, lentamente l’Occidente – mentre i consumatori potevano godere di prezzi più bassi favoriti da una produzione all’estero – ha perso molti posti di lavoro (che si sommavano a quelli eliminati dalla crescente automazione), il resto del mondo è invece cresciuto in termini di benessere, la miseria si è ridotta, potenze dormienti da secoli si sono risvegliate. Se gli standard sociali della globalizzazione fossero stati più alti, concorrenza e delocalizzazione sarebbero forse state meno virulente, il declino dell’apparato industriale occidentale meno marcato.

Resta da vedere quali saranno i risultati della politica di accordi bilaterali che Trump intende mettere in atto. Il neo-presidente è convinto di riuscire a piegare a concessioni tutti i suoi interlocutori, che siano grandi aziende o governi stranieri. Ma produrre beni negli Stati Uniti è senza dubbio più costoso che farlo all’estero o importare prodotti da paesi emergenti, a meno di non ridurre drasticamente gli standard sociali, salariali e i diritti dei lavoratori americani. Se poi dovessero scatenarsi delle guerre commerciali, e le avvisaglie non mancano, le ripercussioni sull’economia americana (e mondiale) sarebbero ancora più marcate. Ricordiamoci che fu la politica protezionista adottata dal governo americano dopo il crack della Borsa di New York nel 1929 a rendere in seguito tanto acuta la recessione degli anni Trenta in America e in Europa.