Ci sono momenti in cui non sembra accadere nulla, e poi la storia ti entra in casa, anzi in camera.
Saranno state le tre di notte, quando nel residence dove passavo l’estate (per sostituire il corrispondente vero della «Stampa») arrivò la telefonata del caporedattore: «Lady Diana si è schiantata in macchina, lì a Parigi. Era con Dodi. Lui è morto, lei sta morendo. Mettiti davanti alla tv e mandaci il pezzo». Il problema è che la tv francese ignorava il fatto, e quindi bisognava andare sul lungo Senna, sotto il ponte dell’Alma, divenuto in poche ore il centro del mondo. E siccome non si poteva ammettere che la donna più famosa e amata del pianeta era morta in un banale incidente stradale, come Grace Kelly e James Dean, già circolavano voci improbabili di colpevoli e complotti.
Prima si diede la colpa ai fotografi. Si disse che la Mercedes di Diana e Dodi veniva rallentata da una moto che la precedeva zigzagando, per dar modo ai colleghi di inseguirla. Si aggiunse che i paparazzi, anziché prestare soccorso, avevano continuato a fotografare; ma la prima telefonata di allarme era venuta da uno di loro. Poi si era fermato un medico, che aveva capito subito che per Diana non c’era nulla da fare: il cuore spostato a destra dall’impatto, il capo reclinato in posizione innaturale. Si disse poi che la principessa era incinta, ed era stata assassinata dai servizi segreti inglesi, perché gli eredi al trono non potevano avere un fratellino musulmano. Tuttora molti ne sono convinti.
Ovviamente, le cose sono spesso più semplici di come le vorremmo. Diana si era lasciata trascinare nel vortice folle della vita di Dodi Al Fayed, inquieto miliardario playboy. Il suo errore di gioventù era stato credere alle favole, per cui le principesse vivono felici e contente. Quando realizzò che era stata ingaggiata per recitare una parte e fare, come tutti, un mestiere, si ribellò al destino che le era stato scritto da altri. Cambiò pettinatura e look. Si riprese la sua vita, senza rinunciare a qualche privilegio della precedente. Il suo coraggio piacque un po’ a tutti, e fece sembrare vecchia e imparruccata la corte, compresa la regina, oggi di nuovo popolarissima. Qualcosa di Diana vive nei suoi figli e nel suo primo nipote, e alla lunga la monarchia inglese sarà modernizzata. Ma non è vero quel che è stato scritto, che la sua morte chiuse un’epoca. Gli anni Novanta della grande speranza di pace, della «fine della storia», sono finiti a New York l’11 settembre. Non sotto il ponte dell’Alma, dove si schiantò un autista ubriaco al volante di un’auto bisognosa di revisione.
Nei giorni successivi ci mettemmo a caccia di notizie. Tentammo di penetrare nell’ospedale dov’era ricoverato l’unico superstite, Trevor Rees-Jones, la guardia del corpo che sedeva davanti, che ovviamente era piantonato sia dai francesi sia dagli inglesi, e oltretutto aveva perso la memoria (dettaglio che in effetti destò qualche legittimo sospetto). Ogni reporter aveva i suoi informatori e la sua pista, che ovviamente portava sempre dalla stessa parte: era stato un incidente.
Ma ben presto la scena si spostò a Londra, dove migliaia di inglesi commossi portavano fiori a Buckingham Palace, dove la regina si guardava bene dal rientrare, mentre la Union Jack garriva felice anziché essere esposta a mezz’asta. Intanto le star piangevano in pubblico, Elton John riadattava una sua canzone, Alastair Campbell coniò a beneficio di Tony Blair la definizione di «principessa del popolo», e il giovane primo ministro laburista convinse la sovrana che era il caso di tornare a Londra ed esprimere cordoglio per la morte della madre di William e Harry, vale a dire il futuro della famiglia e della monarchia.
Qualche giorno dopo morì anche madre Teresa di Calcutta, girarono fotografie della suora albanese accanto a lady D, e la principessa parve sullo stesso piano della santa. Insomma, si esagerò. In realtà avevano sbagliato in due: Diana a inseguire una felicità impossibile, la famiglia reale a non valorizzare appieno l’atout di avere a Palazzo una giovane donna in cui milioni di inglesi (e non solo) potevano identificarsi. Finì in tragedia, ma la corona è ancora lì. E i tour che ancora oggi vengono organizzati a Parigi per ricostruire l’ultima notte di Diana finiscono sempre al ponte dell’Alma, accanto alla partenza di un’altra attrattiva turistica, i Bateaux Mouches.