L’autunno-inverno 1918 fu un anno di macabri conteggi. Nelle trincee francesi, russe, tedesche, italiane e austro-ungariche perirono all’incirca dieci milioni di soldati; a questi occorreva aggiungere le vittime civili (cinque-sei milioni) e infine i defunti per grippe, i caduti della cosiddetta «spagnola», una pandemia che, dagli Stati Uniti all’Africa, si portò via, dal 1918 al 1920, un numero esorbitante di persone infette: dai 25 ai 70 milioni (sono sempre stime). Nella Svizzera neutrale i morti furono 25mila, di cui 913 militi.
L’influenza prese quel nome divenuto poi sinistro, «spagnola», non perché fosse insorta la prima volta in quel paese, ma perché la stampa iberica, non sottoposta alla censura, fu una delle prime fonti a segnalarne la pericolosità. Il contagio non risparmiò nemmeno la popolazione ticinese. Il governo, viste le conseguenze, adottò provvedimenti draconiani. Il 29 ottobre il Dipartimento Igiene e Lavoro decise di vietare in tutto il territorio cantonale gli spettacoli pubblici, i balli, le fiere, i mercati, l’«agglomeramento nei cimiteri». Gli esercizi pubblici dovevano chiudere entro le 22. Ogni assembramento poteva dar luogo ad un focolaio d’infezione.
Nel continente europeo, già devastato da quattro anni di guerra, la grippe indusse i ministeri e gli stati maggiori ad accelerare le trattative per sospendere le ostilità. Gli eserciti, giunti alle porte dell’inverno ormai stremati, denutriti e stanchi, finirono per arrendersi di fronte ad un nemico subdolo, contro cui era impossibile battersi. Uno sperimentato diplomatico tedesco, Paul von Hintze, reputò «illusorio che il popolo tedesco, per metà affamato, piagato dal contagio influenzale, decimato centinaia di volte dalle levate militari e con il sentimento patrio a pezzi potesse di nuovo alimentare il suo “furor teutonicus”». Ondata dopo ondata (la prima registrata nel febbraio del 1918), il virus galoppò da fronte a fronte, da caserma a caserma, da ospedale a ospedale, con la velocità di un puledro impazzito, seminando ovunque morte e disperazione. Impossibile, in queste condizioni, continuare i combattimenti. Nel mese di ottobre la sfiducia investì il vecchio ordine monarchico, decretandone il collasso. L’esaurimento delle scorte alimentari (di patate e rape in primo luogo) e l’epidemia portarono alla firma di un trattato che purtroppo non significava pace ma soltanto armistizio. E infatti, vent’anni dopo, la guerra riprese più violenta di prima. Il grande economista John Maynard Keynes ne previde il decorso nefasto nel suo commento al trattato di Versailles e pubblicato sotto il titolo Le conseguenze economiche della pace.
Anche nella neutrale Svizzera la propagazione della grippe fu motivo di polemica e di scontro tra le forze politiche. Ogni «adunanza», ogni assemblea convocata dal movimento sindacale era considerata una minaccia alla salute pubblica; ma agli occhi della sinistra pure le continue «chiamate alle armi» dei presidi militari sortivano il medesimo effetto. In realtà le ripercussioni nelle zone rurali furono altrettanto gravi che negli agglomerati urbani, segno che le cause andavano ricercate nell’indigenza in cui versavano i ceti popolari, nelle insufficienze del regime alimentare, nella precarietà delle condizioni igieniche, nell’insalubrità degli alloggi.
Il fatto è che la società di allora non si aspettava un cataclisma del genere. Le autorità sanitarie allargarono le braccia confessando la loro impotenza; non meglio fece la scienza medica del tempo, che sulle prime credette di aver individuato l’agente patogeno in un batterio, il «bacillo influenzale di Pfeiffer», isolato all’indomani dell’epidemia che aveva visitato la Russia nel 1889-1890. Il vaccino che s’era approntato in quell’occasione non servì a nulla, come non servirono altri rimedi escogitati dall’industria farmaceutica e frettolosamente immessi sul mercato sotto nomi promettenti come la polvere dentifricia Serodent con canfora, o il Sirolin. Inefficaci si rivelarono pure prodotti noti come l’aspirina o il chinino. Solo nel 1920 si iniziò a sospettare che all’origine della pandemia non vi fosse un batterio bensì un virus, ossia un agente molto più piccolo, quasi invisibile. Ma i laboratori riuscirono a catturarlo solo negli anni ’30 (e solo nel 1995 fu possibile decifrare compiutamente il suo traliccio genetico).
In quei mesi di sconforto e di desolazione era parso che la medicina non fosse in grado di mantenere le sue promesse salvifiche di matrice positivistica. Cosicché nella società cominciarono a circolare diffidenze nei confronti di medici e vaccini spacciati come miracolosi e che tali non erano. Non era questa, come poi si vedrà, il modo corretto di reagire all’insuccesso delle misure profilattiche raccomandate dalle autorità sanitarie. Esauritasi nel 1920 la furia epidemica, la scienza medica fu ben presto in grado di riscattarsi e di riprendere il suo cammino, forse con più modestia ma non con minore determinazione.