La verità è lenta nel mettersi le scarpe

/ 23.04.2018
di Ovidio Biffi

All’ombra dello «scandalo Facebook» continua a prosperare lo «scandalo Fake news». Se ne parla meno, ma per fortuna c’è chi insiste nel proporlo all’attenzione. A suggellare l’importanza di questo fenomeno mediatico è giunto anche un recente studio effettuato negli Stati Uniti da un laboratorio di ricerca del prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT). L’indagine ha appurato che le bufale (sinonimo di «fake news», ma qualche differenza pare ci sia) su Twitter corrono sei volte più velocemente rispetto alle notizie vere e inoltre hanno il 70% in più di probabilità di essere ritwittate, cioè di ricevere approvazione e diffusione, rispetto a notizie vere. Secondo Sinan Aral, coordinatore della ricerca del Mit, le bufale più veloci sono quelle che riguardano la politica seguite nell’ordine da quelle che toccano terrorismo, disastri naturali, finanza e scienza. Tanto per dare un’idea del lavoro svolto dagli analisti: i dati sono stati estrapolati dalle conversazioni di oltre 3 milioni di persone nel periodo fra il 2006 e il 2017; in totale sono stati studiati circa 4,5 milioni di tweet legati a temi come la politica, scienza, leggende metropolitane, intrattenimento e calamità naturali.

La ricerca aveva però un interessante elemento: Twitter, gigante dei social media spesso accusato di far da megafono alle «fake news», ha dato il permesso di usare suoi dati, concessione da collegare al fatto che uno dei ricercatori in passato era stato suo «chief media scientist». Non sto a spiegare la differenza fra l’uso scientifico di dati «forniti» da Twitter a scopo di ricerca e quello truffaldino architettato da esperti della Cambridge Analytica con dati sotratti a Facebook. Vale la pena ricordare il meccanismo di questa seconda operazione, seguendo la descrizione fatta da Franco De Benedetti su «Il Foglio»: Facebook ha un’applicazione che consente ai suoi clienti di iscriversi a un altro sito usando le proprie credenziali; una di queste app, «thisisyourdigitallife» gestita da tale Kogan dell’Università di Cambridge, vantava di saper produrre profili psicologici e di previsione del proprio comportamento. L’illiceità è iniziata quando i 270’000 iscritti all’app di Kogan hanno avuto la facoltà, allora consentita (e poi disattivata da Facebook di sua iniziativa), di utilizzare anche le identità di loro amici: il numero di indirizzi «controllati» raggiunse così i 87 milioni. Dopo di che, spiega De Benedetti, «Kogan condivise questi dati con Cambridge Analytica, che adattò agli indirizzi Facebook di cui era venuta in possesso i profili psicometrici da lei elaborati (nel caso specifico un sistema di “microtargeting comportamentale” che consentirebbe di prevedere e anticipare le risposte degli individui in base ai like) ». Tecnicamente Facebook non ha compiuto illeciti perché da sempre vieta ai proprietari di app (Kogan nel caso contestato) di condividere i dati che raccolgono con società terze (Cambridge Analytica). Ma il suo fondatore Mark Zuckerberg ha denunciato la frode con due anni di ritardo.

Capiterà lo stesso con le «fake news» che continuano ad alimentare incertezze e a minacciare il mondo dell’informazione? Difficile fare pronostici. Secondo Aral e i suoi due colleghi del Mit (Soroush Vorosughi e Deb Roy, ex dipendente di Twitter) la velocità della diffusione sul web delle false notizie va attribuita alla psicologia umana e al concetto di novità: più le notizie false hanno un elevato tasso di novità e maggiore è la propensione delle persone a condividerla o a rilanciare i contenuti inediti con «aiuti» che vanno dai likes ai cuoricini. Come prova delle loro scoperte il terzetto del Mit ha compiuto anche dei test con utenti (125 mila) che avevano rilanciato false notizie, appurando che le persone avevano provato maggiore sorpresa o disappunto di fronte a false notizie, mentre quelle vere le avevano accolte senza troppi sussulti, quasi fossero attese e un po’ scontate. Per i ricercatori il diverso comportamento dimostra che l’atipicità delle bufale, rispetto alle notizie vere, funziona come una carta moschicida che inganna e attrae gli utenti. Per questo continua a essere quasi impossibile ostacolare chi sui social media propone le «fake news» con l’intento di alterare idee, manipolare progetti sociali o politici ecc. Unico antidoto valido è il monito di Mark Twain: «Una bugia può viaggiare per mezzo mondo, mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe». Un secolo e mezzo dopo siamo ancora lì: non tanto perché il web è ultraveloce rispetto ai media antichi, ma perché stregoni delle notizie o truffatori trovano sempre più sprovveduti da manovrare.