La trappola del «denaro facile»

/ 12.08.2019
di Peter Schiesser

Qualcosa sta scricchiolando nell’economia mondiale, e nonostante siano tuttora narcotizzati da quella potente droga chiamata «denaro facile» cominciano ad accorgersene anche i mercati azionari: lunedì 5 agosto le borse hanno subito un tonfo, quella americana poco meno del 3 per cento. Il segnale negativo è stato la leggera svalutazione della valuta cinese, il renminbi, sceso sotto la soglia «psicologica» di 7 per 1 dollaro (vedi F. Rampini a pagina 20). Nulla di eclatante, poiché in realtà la valuta cinese, tenuto conto dell’inflazione e del potere d’acquisto, era sopravvalutata e negli ultimi anni ha già perso valore in seguito al conflitto commerciale con gli Stati Uniti. La mossa della banca centrale cinese, che ha ridotto i suoi interventi per sostenere il renminbi, indica però che la guerra commerciale in atto fra la superpotenza in carica e quella in ascesa ha raggiunto un livello tale da non essere facilmente risolvibile e rappresenta quindi una minaccia per l’economia dell’Occidente e dell’Asia. Washington ha accusato Pechino di manipolazione valutaria minacciando ritorsioni, anche se in questo la Cina non è certamente sola, molte banche centrali (compresa quella svizzera) cercano di influenzare il cambio. 

Il vero problema per l’Occidente è che il conflitto fra Stati Uniti e Cina si innesta su un indebolimento dell’economia e delle leggi di mercato. Da un lato abbiamo le politiche protezionistiche degli Stati Uniti, figlie dell’«America first», dall’altra c’è la politica del «denaro facile» che sta artificialmente gonfiando la finanza mondiale ma solo marginalmente favorendo l’economia reale, ossia la produzione e l’innovazione. All’indomani della crisi mondiale del 2008 scatenata dalla bolla dei subprime americani (antesignano fu il tonfo di Wall Street il 9 agosto 2007, anche allora di poco meno del 3 per cento), fu fondamentale una politica dei tassi d’interesse bassi per evitare un crollo maggiore e prolungato del settore produttivo. Ma da allora i tassi sono rimasti bassi, la Banca Centrale Europea persegue tuttora una politica del «denaro facile», ci troviamo per la prima volta confrontati con l’assurdità di tassi negativi (ossia di dover pagare un interesse alla banca se vi deponiamo dei capitali importanti). Il denaro in quanto tale ha perso valore, eppure non si riesce a generare neppure un’inflazione moderata e considerata sana del 2 per cento. Anche il recente taglio dei tassi da parte della FED americana, il primo dalla crisi del 2008, non cambierà molto: non vi sarà crescita economica superiore a quel mediocre 2 per cento, non vi sarà inflazione, anzi lo spettro che continua ad aggirarsi è la deflazione – quell’anemia economica, con prezzi in calo, che ha accompagnato il Giappone per 20 anni.

E proprio l’esempio del Giappone insegna che non è sufficiente iniettare denaro nell’economia quando i consumatori sono già molto indebitati, non c’è fiducia in una ripresa, le imprese non investono. I capitali vanno dove li porta una logica di guadagno: se le imprese non investono, quel denaro finisce nei mercati azionari. Ed è quanto sta succedendo oggi. I livelli raggiunti nelle scorse settimane dalle borse occidentali non sono più in relazione con la prestazione dell’economia produttiva, è quindi facile che si creino delle bolle azionarie speculative. Se consideriamo poi le nubi geopolitiche che si ammassano all’orizzonte (guerra commerciale Usa-Cina, Brexit, conflitto con l’Iran nel Golfo Persico) dobbiamo constatare che le pressioni sul commercio internazionale sono molto forti. Ma oggi, di fronte ad una crisi finanziaria e poi economica, ci verrebbe a mancare l’arma monetaria, poiché i tassi sono già sotto i livelli di guardia.