La voce a Washington girava da tempo: Dan Coats, direttore dell’Intelligence nazionale americana, sta per andarsene, o per essere cacciato. Il metodo di Donald Trump ormai lo conosciamo, chi non è d’accordo con lui viene piano piano allontanato, spesso dileggiato, comunque messo nelle condizioni di non contare, e infine di cedere il posto. Coats ha 76 anni, ha rappresentato il suo Stato, l’Indiana, sia alla Camera sia al Senato, è stato ambasciatore in Germania di Bush jr e si è pubblicamente scontrato con il presidente su questioni cruciali, che vanno dalle interferenze russe nella campagna elettorale del 2016 alle ambizioni nucleari della Corea del nord.
Quando qualche tempo fa Trump twittò sui capi dell’intelligence «passivi e ingenui» chiedendo di «rimandarli a scuola», ce l’aveva proprio con Coats, che soprattutto sul tema russo – che ha avvelenato finora l’intera presidenza – aveva difeso la versione dei servizi segreti: l’ingerenza c’è stata, eccome. Dopo lo scontro, Trump aveva rinnovato la sua fiducia nei confronti di Coats, gli aveva chiesto di non rinunciare all’incarico, ma il rapporto di fiducia si era interrotto e si sa che recuperare, in questi casi e con questo presidente, è impossibile: così Coats ha presentato le dimissioni, a partire dal 15 agosto.
Trump ha già scelto il sostituto: è il deputato del Texas John Ratcliffe, che deve passare le audizioni al Senato – che al momento sembrano molto incerte per lui – ma che ha già avuto modo di fare una propria personalissima audizione per Trump durante la testimonianza di Robert Mueller, il superprocuratore del Russiagate. Lo scambio tra i due è finito con Ratcliffe che diceva: «Concordo con il presidente della Commissione che dice che Donald Trump non è al di sopra della legge. Non lo è. Ma certamente non è nemmeno al di sotto della legge, che è invece il posto in cui lo colloca il volume due di questo report», cioè del report di oltre 400 pagine presentato da Mueller nei mesi scorsi.
Ratcliffe sposa anche la versione di Trump sulle relazioni tra America e Russia: è stata Hillary Clinton a colludere con le spie russe. La dichiarazione di lealtà è arrivata dritta alle orecchie di Trump – amplificata dalla consueta solerzia di Fox News – che aveva già detto ai suoi, nei giorni precedenti la deposizione, di volere Ratcliffe a capo della Intelligence. I beninformati dicono che in realtà l’ambizione del conservatore texano 56 anni era la nomina a ministro per la Giustizia, vista la sua esperienza come procuratore nel suo Stato che si vantava di aver arrestato «300 alieni illegali» in un solo giorno. Ma non si può dire che sia dispiaciuto del nuovo incarico, tutt’altro, anche perché ha buoni rapporti con il nuovo direttore dell’Fbi che conosceva già dai tempi di Bush e soprattutto alla Giustizia c’è un ministro, William Barr, che agli occhi di Trump assolve lo stesso obiettivo: politicizzare quelle zone dell’Amministrazione considerate più ostili.Trump premia la fedeltà e governa in questo modo i conflitti attuali e potenziali. Il suo scontro con la comunità dell’intelligence ha scandito la sua presidenza, più volte il presidente ha accusato l’Fbi e la Cia di aver alimentato complotti contro di lui – è la celebre retorica del «deep state» tornata tanto di moda. Il rapporto resta complicato e pieno di sospetti: Trump continua a credere più al suo istinto e a quel che gli dicono i leader internazionali con cui ha più sintonia che ai report dell’intelligence.
Quando la Cia ha stabilito che il principe saudita Mohammed bin Salman ha pianificato l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul, Trump ha definito il rapporto «feelings», sensazioni, gettando via il lavoro di mesi e le prove raccolte. L’intelligence – ha scritto un esperto di sicurezza sul «Washington Post »– «è tutta una questione di fatti. In un mondo ideale, i politici ricevono documenti neutrali sui più importanti dossier internazionali e prendono le loro decisioni tenendo bene a mente le informazioni ricevute. La politicizzazione dell’intelligence inverte questo processo: non sono più le informazioni a guidare le politiche, ma sono le politiche a guidare le informazioni o la loro raccolta». Tale inversione fa parte della strategia di Trump: se Ratcliffe ha intenzione di seguire il presidente indipendentemente dai fatti, è evidentemente più facile per Trump far passare le proprie idee, dalla Corea del nord all’Iran passando per la Russia. Intanto non c’è alcuna prova che Pyongyang stia ridimensionando le sue aspirazioni nucleari; lo Stretto di Hormuz è già terreno di battaglia con Teheran (per non parlare dell’Iraq); e la Russia si sta preparando alla prossima tornata elettorale americana.