I Cinque Stelle sono finiti? Molti dicono di sì, tutto lascia credere di no.
Il voto in Sardegna è stato un terremoto. Il partito che esprime il premier, un vicepremier, il presidente della Camera, il Guardasigilli e altri ministri importanti è passato da oltre il 40 a meno del 10 per cento. La coalizione di centrodestra che nel 2018 non aveva vinto un solo collegio uninominale ha conquistato la Regione, come era già accaduto in Molise, Friuli Venezia-Giulia, Trentino-Alto Adige, Abruzzo (e come probabilmente accadrà in Piemonte). Eppure Salvini ribadisce di non avere alcuna intenzione di ricostruire a livello nazionale l’alleanza con cui si era presentato alle politiche, e ripete che il governo durerà altri quattro anni. Legittimo: la maggioranza parlamentare è solida; le opposizioni restano deboli e divise. Ma è altrettanto legittima la domanda: il governo dura per fare che cosa?
La situazione dell’Italia è critica e può diventare drammatica. Crescita zero, spread oltre quota 250, crollo della produzione industriale. Eppure nell’agenda di governo non c’è traccia di piani per rilanciare l’economia. Anzi, forse un’agenda di governo neppure c’è. I consigli dei ministri durano pochi minuti: il tempo di esorcizzare lo spettro di una manovra correttiva, ovviamente post-elettorale. L’unica strategia è il rinvio. Si rinvia la Tav, perché i Cinque Stelle non possono ammainare anche quella bandiera. Si rinvia la questione cruciale dell’autonomia delle Regioni del Nord. Ora si rinvia pure la riforma della legittima difesa.
Il governo finora si è concentrato su due provvedimenti: il reddito di cittadinanza, il cui esito resta ancora abbastanza incerto, e quota 100. Si può discutere sull’equità di queste misure; l’unica certezza è che serviranno poco o nulla al rilancio dell’economia. Che ha bisogno di investimenti pubblici e privati. Di una politica che incentivi le imprese ad assumere. Di un taglio netto alle tasse sul lavoro. E anche della riduzione di spese improduttive e sprechi.
È probabile che il prossimo 26 maggio i Cinque Stelle perderanno terreno rispetto alle politiche; ma sarebbe sbagliato considerarli finiti. È evidente che un movimento nato da un «vaffa», costruito cavalcando tutti i No possibili e immaginabili, cementato dall’opposizione al sistema, una volta andato al governo e quindi divenuto a sua volta sistema è destinato a perdere appeal. Tuttavia le ragioni del discredito delle forze che hanno appoggiato i governi precedenti sono ancora lì, quasi intatte. E non va sottovalutata l’influenza della rete, su cui i Cinque Stelle sono nati e che continua a rappresentare per loro – nonostante gli hashtag e i panini con nutella di Salvini – un terreno favorevole.
Resta clamoroso l’esempio di quest’estate: dopo il crollo del ponte di Genova, l’attenzione della rete all’inizio si incentrò su Grillo, che aveva fatto proprie le parole di un gruppo anti-Gronda (il progetto autostradale che dovrebbe tagliare fuori la città di Genova liberandola dal traffico pesante) sulla «favoletta del crollo del ponte»; ma in poche ore tutto si è spostato addosso ai Benetton. Che avevano probabilmente le loro responsabilità, ma dal punto di vista degli influencer legati ai Cinque Stelle erano un bersaglio perfetto: ricchi e considerati «di sinistra», per via del rapporto con i governi del Pd e per l’aura gauchiste che circonda il fotografo Oliviero Toscani e le sue campagne antirazziste.
Tuttavia il vincitore annunciato delle Europee è ovviamente il leader leghista. La mutazione del Carroccio – da nordista a nazionalista – è ormai compiuta. Bossi vagheggiava di staccare il Settentrione d’Italia per agganciarlo all’Europa; Salvini vagheggia di rovesciare i rapporti di forza a Bruxelles, e qualcuno dei suoi di portare fuori dall’Europa l’Italia intera. Ma sono disegni percorribili? La verità è che qualsiasi leadership, anche la più dinamica, non può prescindere dalle condizioni economiche e psicologiche del Paese. L’Italia oggi segue Salvini quando frena gli sbarchi e fa la faccia feroce; ma domani non lo seguirà, se lui non saprà rispondere alla domanda di investimenti, cantieri, tagli alle tasse che sale dal Nord.
Non possiamo sapere oggi a chi spetterà condurre questa politica, al governo in carica o a un futuro governo di centrodestra. L’unica certezza è che questa rappresenta l’unica politica possibile. O si rilancia l’apparato produttivo e si ricostruisce la fiducia degli investitori nel sistema Italia, oppure qualsiasi governo e qualsiasi leader finiranno per essere travolti dalla stagnazione e dal risentimento.
Quanto ai Cinque Stelle, con Zingaretti alla guida del Pd si aprirebbe per loro una prospettiva diversa. Vedremo se sapranno coglierla e aprire un dialogo.