La Spagna e la sua identità

/ 21.10.2019
di Aldo Cazzullo

La sentenza che infligge decine di anni di carcere ai separatisti catalani scava un fossato forse incolmabile tra Madrid e Barcellona. E induce a pensare che il sogno catalano sia forse davvero finito per sempre.

C’era una volta una meravigliosa piccola patria, che faceva da ponte tra la vecchia Spagna e la nuova Europa. L’ultima regione ad arrendersi a Franco nel 1939, e la prima a insorgere contro di lui al tramonto della dittatura. Dove l’Andreotti locale, Jordi Pujol, non abbracciava i generali del regime; finiva in galera per aver cantato davanti a loro l’inno catalano. Una città in cui sono nati o si sono formati i più grandi artisti spagnoli del Novecento, dove Antoni Gaudì finiva sotto un tram inseguendo la visione di architetture moderniste, Pablo Picasso piangeva la morte dell’amico Casagemas suicida per amore, Joan Mirò tracciava l’ultima versione della Speranza di un condannato a morte mentre il Caudillo faceva garrotare l’ultimo anarchico, Salvador Puig Antich (Paolo VI implorò la grazia; Franco non gli venne neppure al telefono).

Una terra che onorava il primo presidente ad aver proclamato l’indipendenza, Lluis Companys, con una tomba degna di re Artù, in mezzo a un lago, e gli dedicava lo stadio dell’Olimpiade del 1992, simbolo della rinascita. Una squadra di calcio che era più di una squadra di calcio, dall’impresa di Crujff che umilia con cinque gol il Real Madrid – la squadra del dittatore – a casa sua, all’adesione di Guardiola e Piquet alla causa catalana. E un’università dove venivano gli studenti di tutta Europa, per il mitico programma europeo «Erasmus», e finivano spesso per restarci.

Tutto questo non può finire con un processo chiaramente politico, con condanne fino a tredici anni di carcere inflitte a uomini e donne (eletti dal popolo) che hanno già passato 600 giorni in cella, sollecitate da un partito di estrema destra, Vox, ammesso come parte civile prima ancora di essere rappresentato in Parlamento. Ma se si è arrivati a tanto, è perché i separatisti hanno sbagliato tutto quello che potevano sbagliare.

Hanno pensato di poter trascinare con sé una buona metà di catalani che la secessione non la volevano. Hanno sorvolato sulla scoperta che la famiglia Pujol portava milioni di euro ad Andorra. Si sono illusi di approfittare della crisi economica e della debolezza dell’Europa per lacerare una delle più antiche nazioni del mondo. Hanno raccontato la favola di una Catalogna storicamente indipendente, mentre dal matrimonio di Ferdinando in poi la sua storia è intrecciata a quella del resto della Spagna: la corte era itinerante, ed è a Barcellona che Cristoforo Colombo annuncia ai re cattolici di aver raggiunto l’Oriente navigando verso Occidente. Soprattutto, i separatisti hanno sottovaluto l’ostinazione spagnola.

Non solo della destra, del re, dello Stato profondo; anche l’ostinazione dei socialisti estremegni e andalusi. Perché se la Catalogna se ne fosse andata, seguita un minuto dopo dai Paesi baschi, la Spagna avrebbe perso le sue regioni più ricche e aperte all’Europa, e sarebbe stata abbandonata a un futuro di arretratezza e isolamento.

Invano lo scrittore catalano più importante, Javier Cercas, quello più letto nel mondo, Ildefonso Falcones, e il Nobel Mario Vargas Llosa – che ha raccontato di aver trascorso a Barcellona gli anni più felici della sua vita – si sono espressi in pubblico contro la secessione. La scintilla era già accesa. Le manganellate sferrate dalla Guardia Civil per impedire il referendum del primo ottobre 2017 – privo di valore legale – hanno fatto il resto. Le successive elezioni di dicembre hanno riconsegnato la maggioranza ai separatisti (sia pure non assoluta). E ora la sentenza di Madrid sparge sale sulla ferita.

È chiaro che non si tratta di pene definitive, ma dell’ennesima mossa spregiudicata di una partita a scacchi che dura da troppo tempo. È evidente che se si avviasse un dialogo, se si trovasse una soluzione, i «prigionieri politici» – come si definiscono – sarebbero salvati da un indulto. Ma la reazione vista ieri a Barcellona, con i disordini che hanno bloccato l’aeroporto, non lascia speranze per l’immediato. E ora i partiti faranno tutta la campagna per le quarte elezioni nazionali in quattro anni – in Spagna si vota fra meno di un mese – contro la frantumazione e per l’unità della patria comune.

Il sogno catalano era essere l’avanguardia di Spagna. Così rischia di trasformarsi in un incubo di provincialismo, rancore, scontri di piazza, frustrazione. Un destino non degno di un piccolo grande popolo.

E mentre Barcellona è in fiamme, si occupa l’aeroporto, i secessionisti attaccano con l’acido gli stessi poliziotti catalani additati come traditori, alla Moncloa, la sede del governo di Madrid, si discute di un altro fondamentale argomento: quale bandiera dovrà avvolgere il feretro di Franco? Quella del 1939, come vorrebbero i familiari, o quella attuale? Insomma, la Spagna non sa più chi è. Ed è un problema per tutti, visto che la Spagna è lo Stato più antico d’Europa.