La sorella di tutti noi

/ 25.02.2019
di Maria Bettetini

Un luogo dove ti sentirai a casa. Sarà la pubblicità di un venditore di divani? Di un sito immobiliare? Sarà il claim del simpatico ragazzo che in cerca di un appartamento si trova così bene da farsi la doccia e offrire all’agente un caffè o un «succhino» (molto milanese!)? no, è la pubblicità di un sito di onoranze funebri. Stupisce, perché di fronte alla tragicità del contatto con la morte il sito cerca di tranquillizzare: come a casa tua. Come se fosse domestico il dolore, come se fosse normale incontrare la fine ogni giorno. Non è così, ogni volta è una sorpresa, ma perché deve visitare casa mia questa signora antipatica e prepotente. Perché è l’unica certezza, direbbero quelli che dicono banalità. Perché ognuno la incontra, prima o poi, proseguirebbero. E via così, con i luoghi comuni, che poi spesso è l’unica difesa contro la paura.

In Romagna morire si dice «tirare la gambetta», formula misteriosa per me e per i miei fratelli, da piccoli, finché vedemmo un film che poteva essere L’aereo più pazzo del mondo, in cui uno dei protagonisti moriva tirando, appunto, la gambetta, cioè stendendo una delle gambe. C’è gente che non riesce a essere seria nemmeno nel momento culmine di tutti i momenti. Per loro ho grandissima stima, bisogna davvero possedere un grande senso dell’ironia e del limite per scherzare proprio su tutto.

Mio padre era così, ai funerali, soprattutto, mantenendo grande apparente serietà, riusciva a dire e fare cose esilaranti; durante l’ultimo al quale abbiamo partecipato assieme, quello di un suo collega e amico, siamo riusciti ad appoggiarci insieme e inopinatamente al banco della chiesa, precipitando con esso e con gran fragore, cosa sconveniente ma di assoluto divertimento (avevamo l’onore della prima fila, tra l’altro).

Quando morì, ancora abbastanza giovane, la nonna, imitò il nonno che gli chiedeva poche ma intense righe sulla vita della moglie. Quando morì l’altra nonna, sua madre, imitò la sorella che chiedeva di controllare se davvero fosse morta, per non trovarla un dì con le mani ad artiglio nel tentativo di liberarsi, viva, da una cassa da morto. Quando morì un’altra parente, rideva come un matto perché ai becchini scappò di mano il feretro, che rotolò per i gradini di ingresso alla chiesa, e una delle sue sorelle esclamò «meno male che era ben imbullonata».

Ebbene, dopo qualche anno di pesante malattia, se ne andò anche lui: un sollievo, perché soffriva davvero. Al suo funerale ricordo la sensazione di un’assenza, con chi potevo ridere di parenti e amici? Con chi potevo cadere dal banco, o notare i bulloni della bara? Non potevo non accorgermi dei suoi coetanei che da un lato porgevano condoglianze, dall’altro sembravano dire «e anche stavolta non è toccato a me».

È talmente strana questa fine della vita corporale, questo entrare in un altro mondo, che non c’è fede che possa preservare dalla paura. Anzi, forse proprio la fede è quella che permette di guardarla in faccia, «sora nostra morte corporale». Che sublimità le parole di San Francesco, che fiducia. «Laudato sì, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullo homo vivente po’ scappare».

La morte, una sorella? La rivoluzione di ogni pensiero. E poi «guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farà male». Leggere queste poche righe, in un italiano arcaico, tanto mi ha rincuorato di fronte alle morti che non sono mai giuste, mai eque. Non per questo siamo nati, non per finire. Però questo passaggio dobbiamo sopportare.

Ora, forse sembrerà esagerato, ma il primo film che ho visto a un cinema che non fosse il Fiammetta, cinema dell’oratorio ormai soppiantato da un archivio di Stato, fu il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman. Avevo dieci anni? Forse. I miei genitori mi ingannarono, vai che c’è un bel cavaliere biondo. Era l’inquietante Max von Sydow (che vive ancora, più che novantenne), rivale di una morte vestita di nero, con cui gioca per tutto il film una partita a scacchi, una partita che troverà tutti perdenti, tranne la famiglia di saltimbanchi che riesce a fuggire dalla catastrofe finale.

È brutto trattare di questi temi con i bambini? No, è renderli consapevoli di chi siamo, dove andiamo. I miei studenti non conoscono nemmeno il nome di Bergman, quando cito uno dei suoi film mi guardano come un procione in primavera, o un pinguino nel deserto. Bambini, non è colpa vostra, lo so bene.

Però, dopo i dieci anni, cercate di capire l’essenziale, tutto passa, ma non c’è scampo da questa sorella, da questa fine della vita corporale. Credete quel che volete, ma lei arriverà, vi piaccia o no. Mi piaccia o no, e non si creda che solo perché ne parlo io sia immune dalla paura di ciò che, in fondo, è ignoto. Forse bellissimo, ma a noi sconosciuto.