È ormai evidente che non c’è modo di difendersi in via assoluta dal terrorismo islamista. Non c’è difesa che possa garantire la sicurezza e la vita. Ma questo non significa che l’Occidente non si debba difendere. Soprattutto, non deve perdere l’anima, rinunciare a se stesso e alle proprie libertà.
La guardia era alta soprattutto in Francia, dove il processo democratico che si concluderà con le legislative (11 e 18 giugno) finora è proseguito senza condizionamenti esterni, nonostante l’attacco degli Champs-Elysées. Invece nel mirino è tornata l’Inghilterra.
Quel che più colpisce, nel guardare le fotografie della strage degli innocenti a Manchester, è il contrasto tra le immagini infantili – i palloncini, le collanine colorate, le orecchie da topolino – e la macabra crudeltà del terrorismo islamista. Che attacca senza strategia e anche senza tattica, animato dall’odio per la vita, con il solo obiettivo di uccidere più bambini che può. Un lungo percorso di sangue, cominciato nel terribile attacco alla scuola di Beslan (oltre 300 morti, tra cui 186 bambini).
È un contrasto, questo tra l’innocenza e la crudeltà, che in altri casi è stato additato come la prova della debolezza di un Occidente imbelle di fronte alla spietatezza dei suoi nemici. Invece l’innocenza dei bambini, degli adolescenti, delle mamme di Manchester va rivendicata. Non è un segno di impotenza ma di forza, di amore per la vita non meno irriducibile della ferocia con cui i nostri nemici ci combattono. E l’innocenza la dobbiamo difendere, in tutti i modi in cui può essere difesa: dalla paura, dal ripiegamento su noi stessi; ma in primo luogo dall’attacco degli islamisti. Che colpiscono sempre dove meno ce lo aspettiamo.
Anche nel Regno Unito si vota, l’8 giugno, pochi giorni prima delle legislative francesi, il cui esito è molto aperto: Emmanuel Macron avrà la maggioranza relativa, difficilmente quella assoluta. Ma quelle inglesi sono elezioni scontate, la vittoria dei conservatori non è in discussione, l’unica incognita è la dimensione del crollo laburista: nessun attacco del terrore potrà cambiarne il verdetto, come fece in Spagna nel 2004 la strage di Madrid, che aprì la strada del governo a Zapatero.
Stavolta, a differenza dello scorso 22 marzo, il bersaglio degli assassini non era il Parlamento di Westminster. Erano i fan di una cantante che quasi nessuno di noi adulti aveva mai sentito nominare, ma è molto amata dai teenager. E l’obiettivo era accreditare uno dei paradigmi del terrore: il parallelismo della sofferenza tra i morti di Manchester e quelli in Siria, in Iraq, in Libia, in Yemen. Uno schema cui una parte dell’opinione pubblica europea, anche non islamica, è sensibile; ma che invece va respinto nel modo più assoluto. Le guerre civili in Medio Oriente e in Africa, accese dalla rivalità religiosa e dalla rivolta contro i vecchi autocrati, continuano anche perché le potenze regionali e quelle mondiali hanno l’ambizione di giocare un ruolo. Ma quale responsabilità possono portare i ragazzi che vanno a un concerto, i genitori che attendono all’ingresso, i familiari che aspettano da casa telefonate che non verranno?
Alzare muri è impossibile e in ogni caso inutile. Il Regno Unito non ha mai aderito agli accordi di Schengen, non ha mai sospeso i controlli alle frontiere, un anno fa ha votato per uscire dall’Europa. Ma non per questo è al riparo. Manchester poi è da tempo un centro di reclutamento per gli estremisti islamici. Questo però non può essere un alibi per rinunciare al governo dell’immigrazione, al presidio delle frontiere meridionali d’Europa, al controllo della propaganda jihadista su Internet e nelle periferie delle nostre città.
Ovviamente la sicurezza è una condizione perduta per sempre. I motivi di allarme possono essere infiniti. Sabato 3 giugno a Cardiff c’è la finale di Champions. Il primo luglio a Modena Vasco Rossi terrà il più grande concerto della storia italiana.
Si tratta ovviamente di non perdere la testa. Non fare come se nulla fosse; il che sarebbe difficile e anche un po’ sciocco. Ma essere consapevoli che questa non è una guerra; è un tempo. Il tempo che ci è dato in sorte.