La scissione, vecchio riflesso

/ 27.02.2017
di Peter Schiesser

Era venuto per rottamare la vecchia dirigenza del Partito Democratico, Matteo Renzi, sarà forse ricordato come il leader sotto la cui dirigenza si è sgretolato il partito, quell’esperienza di soggetto politico di centro-sinistra nata nell’ottobre del 2007 con ambizioni di riformare l’Italia. 

Era un esperimento politico, già un po’ tardivo, sorto sulla scia di quella «terza via» tracciata da Bill Clinton, Gerhard Schröder, Tony Blair, che tentarono di far convivere liberalismo economico e visione progressista della società. In realtà, il Pd, nato dalla fusione dell’Ulivo con la Margherita, di un centro-sinistra con un centro, non ha sposato fino in fondo questa «terza via» e l’Italia è rimasta un paese refrattario alle riforme. Matteo Renzi ne ha fatto le spese, e non hanno certo aiutato il suo stile di conduzione autoritario, la sua spregiudicatezza, i suoi errori politici (in particolare, l’aver legato la sua permanenza alla presidenza del governo al risultato del referendum sulla riforma del Senato). Ora che Bersani, D’Alema ed altri hanno annunciato di voler lasciare il partito per formarne un altro, muore di fatto il progetto di un fronte che abbracci le forze che si considerano progressiste e il più moderato ceto medio, con il rischio di consegnare l’Italia a populisti incompetenti, come se ne trovano alla corte di Grillo e attorno all’icona della nuova destra Matteo Salvini. 

Questa ineluttabile amputazione del Pd sconcerta. Molti commentatori e politici italiani leggono nella fuoriuscita dell’ala sinistra del partito un calcolo elettorale: con il ritorno ad un sistema di elezione proporzionale, i vari Bersani e D’Alema potranno contare su una loro personale, per quanto piccola base di potere, dunque meglio qualche poltrona per sé che un progetto per il paese. Ma è anche l’antico riflesso della sinistra, quel meglio pochi e puri che tanti e con idee diverse. Con le conseguenze di sempre: un paese che lentamente si consegna alle forze conservatrici, o peggio a forze disgregatrici. È una responsabilità che i secessionisti del Pd, ma anche Matteo Renzi, devono assumersi, è una decisione che peserà sul futuro dell’Italia.

Le nubi nere che si addensano sull’orizzonte politico non sono ciò di cui ha davvero bisogno l’Italia, tuttora incapace di uscire dalle difficoltà economiche inaspritesi con la crisi mondiale del 2008. La Commissione europea ha di nuovo ammonito l’Italia per il superamento dei limiti posti all’indebitamento pubblico, Unione europea e Fondo monetario internazionale sono preoccupati per l’Italia quanto per la Grecia, i debiti accumulati dal sistema bancario italiano sono un’ipoteca preoccupante, si fanno sentire l’assenza di riforme liberalizzatrici di un sistema economico ancora molto corporativo e i crescenti squilibri nel mondo del lavoro, con i giovani che restano nel limbo del precariato: un insieme di problemi strutturali (cui potremmo aggiungere il peso e l’iniquità del sistema fiscale e altro ancora) che mettono l’Italia in uno stato precario.  

Anzi, lo rendono ancora più drammatico, come indicano le statistiche sui redditi e sul patrimonio degli italiani. Dal 1989 al 2015 il reddito medio netto degli impiegati è sceso da 20 a 17mila euro. Due terzi dei giovani sotto i 34 anni vivono ancora con i genitori, per necessità. Sempre più spesso, genitori e nonni devono aiutare finanziariamente figli e nipoti, ai quali il salario, anche quando c’è, non basta. Di conseguenza, dalla metà degli anni Duemila i patrimoni e i capitali risparmiati sono in calo in tutte le categorie di età (un interessante reportage in proposito sulla NZZ , 11.2.2017). 

L’Italia non ha bisogno di derive politiche, eppure succede di nuovo. Come ha detto Prodi, fra le patologie umane c’è anche il suicidio.