La ruota della scissione del partito democratico ha preso a rotolare, e fermarla sarà difficilissimo. Forse impossibile.
Il mondo va a destra. In Francia il candidato della Gauche è quarto nei sondaggi, dopo che si sono bruciate le candidature del presidente e del primo ministro. In Spagna i socialisti appoggiano di fatto il partito nato dalle ceneri del franchismo, eredi di coloro che due generazioni fa li mandavano in galera. In Inghilterra i laburisti si sono arroccati a sinistra condannandosi all’irrilevanza. In Germania l’Spd ha avuto una fiammata nei sondaggi, ma tutti pensano che le elezioni le vincerà la Merkel. In Olanda è favorito il leader xenofobo che vuole la fine dell’Europa. In America i democratici hanno subito una sconfitta storica, con Obama che si gode le vacanze e Hillary che si cura le ferite. In Italia tutto il potere va (provvisoriamente) a Orfini, presidente del partito democratico, che gestirà la fase successiva alle dimissioni di Renzi. In queste condizioni, la scissione è da irresponsabili. Ma questo non significa che non ci sarà. Anzi.
Dice Renzi che «il Pd è fatto da milioni di elettori, migliaia di iscritti. Il Pd appartiene al popolo, non ai segretari. Non andatevene, venite. Partecipate. Le porte sono aperte, nessuno caccia nessuno. Ma un partito democratico non può andare avanti a colpi di ricatti. Apriamo le sedi dei circoli e discutiamo. E, finalmente, torniamo a parlare di Italia». Ma non è con gli appelli che si risolverà la situazione.
Bersani dice che la scissione c’è già stata. È vero: la spaccatura del Pd al referendum non è passata come acqua sul marmo. Bersani, D’Alema, Speranza hanno fiutato il vento e hanno votato No pur di liberarsi di Renzi, alleandosi con gli antisistema. Ma dopo Renzi non torna D’Alema e non arriva Speranza; arrivano appunto gli antisistema. Dopo la scissione, il Pd non sarà più il primo partito; a quel punto Mattarella dovrà dare l’incarico di formare il governo a un esponente della forza di maggioranza relativa; con molte probabilità, i Cinque Stelle. Magari con l’appoggio esterno di Salvini su due semplici punti: linea dura sull’immigrazione, uscita dalla moneta unica.
Il punto è che il ritorno al proporzionale rende meno significative le primarie per la scelta del leader; tanto nessun partito avrà la maggioranza, nessuno vincerà – o perderà – davvero. E per bersaniani e dalemiani meglio prendere il 7% da soli che il 30% con Renzi: avranno pur sempre più seggi in Parlamento. In questo momento, poi, le primarie contro Renzi qualsiasi candidato della sinistra interne le perderebbe.
Ma dopo le elezioni quale governo avrà il Paese? Si parla molto di «larghe intese» tra sinistra e Forza Italia; ma sarebbero intese striminzite. Probabilmente le forze europeiste (o meglio non anti-europee) non avranno i seggi per governare. E poi davvero a Berlusconi conviene cercare un accordo dopo il voto con un partito così instabile, anziché ricostruire l’alleanza tradizionale con la Lega? Nel Carroccio c’è una corrente che fa a capo ai presidenti di Lombardia e Veneto, Maroni e Zaia, per riportare Salvini all’ovile berlusconiano. Anche se Berlusconi e Salvini proprio non si sopportano. Quasi come i leader e leaderini del Pd.