Sera di Natale. I 300 canali televisivi sembrano essersi accordati per diffondere fuffa (si diceva «a reti unificate», oggi vien da pensare «a reti imbastardite»). E così, terminata la tombola e chiuso l’uscio dietro nipoti e figli che rientrano alle loro case, eccomi con in mano uno dei libri ricevuti in regalo. Edito da Dadò, porta la firma dell’avvocato Tito Tettamanti. Copertina con una gradazione di blu (non l’azzurro che ti aspetteresti, indaco di Persia) e con l’estro di Orio Galli impegnato a far emergere il Flash del titolo. L’autore, che tutti conoscono, nella presentazione spiega di aver voluto riunire aneddoti e fatti divertenti accadutigli durante la multiforme carriera professionale o nel corso dei tanti viaggi, precisando che «se poi gli amici leggendo sorrideranno» lui ne sarà lieto. Altra precisazione: il titolo non fa riferimento all’arte fotografica (Tito Tettamanti non ha mai scattato fotografie, salvo una, in Cina, come si legge nel libro). È infatti l’esercizio del leggere che, sin dall’inizio, sprigiona un tripudio di immagini, rendendo il volumetto agile e intrigante, in alcune pagine persino spumeggiante, soprattutto quando il racconto consente al lettore di indovinare o riconoscere i personaggi complici di fatti (e anche di qualche amabile raggiro) divertenti prima ancora che singolari e interessanti.
Non mi è mai piaciuto fare recensioni. Ho sempre cercato di schivarle, anche se talvolta sento una spinta contraria, soprattutto quando avverto la possibilità di disobbligarmi per gioia o emozioni provate nella lettura. In questi casi, dovendo nascondere la mia precarietà di «bricoleur» lessicale, di solito cerco aiuto in qualche similitudine. Per questo inizio dicendo che la lettura di Flash di Tito Tettamanti è stata per me assai simile a una gita in qualcuna delle valli meno frequentate del nostro Cantone (ad esempio la Val d’Ambra in Leventina; o la valle della Crotta nel Mendrisiotto), generose nel sorprenderti e nell’entusiasmarti. Sono i personaggi (taluni eccellenti) che Tettamanti raduna a consentirgli di catturare nitidissime istantanee e di trasmetterle con una vena narrativa degna del migliore P. G. Wodehouse. La narrazione inizia dalla Lugano di un tempo, ancora priva di quel grigiore che oggi cerca ostinatamente (addirittura con la sabbia...) di cancellare, approda in Kenya dopo due o tre balzi scoppiettanti ed esilaranti, prosegue in Asia e nelle Americhe ricordando attività e incontri, addirittura rivela i preparativi non solo teorici di un «exodus» ticinese (poi abortito) verso la Nuova Caledonia, per poi ritornare in Europa e in patria con una conclusiva serie di storie e di personaggi spesso insospettabili (anche negli accostamenti).
La vena di «humour» di Tettamanti non è riservata solo a celebri personalità politiche (da Kurt Waldheim, ai presidenti Cossiga, Barre e Scheel, sino all’ex-ministro greco Varoufakis); anzi: raggiunge l’apice nei ritratti di amici e personaggi della vita cantonale o cittadina, come pure nelle amabili chiamate in causa della moglie Dodi. Imperdibile esempio: impegnato a ottenere un tavolo per otto invitati chez Alain Ducasse, Place Athénée a Parigi, l’autore sente al telefono il direttore del ristorante stellato ordinare: «Il faut à tout prix une table pour Maître Tettamanti» e il capo servizio chiedergli: «Mais, c’est qui celui-là?». A quel punto arriva la puntualizzazione: «Maître Tettamanti, mais oui, le mari de la femme aux chapeaux!». E l’autore dei «Flash» annota: «Uno lavora duro tutta una vita per farsi una reputazione, crearsi un posto nella società, e poi viene riconosciuto per i cappelli – oggettivamente originali e molto belli – della moglie!». Il racconto che mi ha ammaliato di più è però quello dedicato all’amicizia con il cuoco Angelo Conti Rossini: «Ul chégh», in buon dialetto brissaghese. È in quelle pagine, come nelle precedenti dedicate a un amico consumista compulsivo (difficile fingere di non capire chi sia il cardiologo Tiziano...), che Tettamanti avvicina lo stile del citato Wodehouse, il creatore dei romanzi e dei racconti di Jeeves. Oltre al sentito e affettuoso ritratto del grande cuoco di Brissago c’è anche la scoperta dell’amicizia con altri personaggi della sinistra ticinese, dal consigliere di stato Guglielmo Canevascini al sindacalista Alfredo Bernasconi e all’artista Mario Comensoli. Ma sono tanti gli aneddoti e i momenti di ilarità disseminati nei diciotto capitoli: a finanza, economia e politica solo pochi e mirati accenni. Centinaia di «flash» di una freschezza d’altri tempi, mirabilmente rievocata nel finale con le atmosfere «Anni Cinquanta» del Lido di Lugano.
Lettura terminata, eccomi sul balcone di casa a ripensare, più che a brasati e risotti, alla magnifica risata dell’Angiulìn. E il ricordo di quel gran comunista di un «chégh», chissà perché, mentre sto guardando le pendici del Brè e le luci di Castagnola, mi fa venire in mente anche il «Ben scavato, vecchia talpa».