La quotidianità in tempi di coronavirus

/ 09.03.2020
di Peter Schiesser

Al risveglio, il primo pensiero che sorge è: ora devo scendere nel mondo contaminato dal coronavirus. Immediatamente la quotidianità assume un aspetto diverso da quello abituale fino a due settimane fa. Salendo sul trenino (bado a scegliere un orario in cui non è troppo affollato) lo sguardo vaga in cerca di un posto in cui il dirimpettaio non sembra avere tosse o raffreddore, e se qualcuno tossisce valuto se non sia troppo secca. Salendo in redazione sto attento a premere il tasto del lift con le nocche ed evito di toccarmi bocca naso occhi. Mi lavo o disinfetto frequentemente le mani. Con i colleghi e con le persone che incontro adotto una social distance, come ci invita a fare il consigliere federale Alain Berset, quindi niente baci né strette di mano, mantenendo una distanza di sicurezza – nel rispetto della strategia nazionale di contenere e diluire il contagio nel tempo affinché le strutture ospedaliere non giungano al collasso con l’arrivo di un numero eccessivo di malati gravi. In una redazione la giornata di lavoro è composta da tanti compiti diversi, ma ovviamente siamo sempre attenti alle notizie che riguardano il Covid-19: gli ultimi bilanci in Svizzera, in Italia, nel mondo, le notizie più rassicuranti e quelle che invece preoccupano – la mente è alla continua ricerca di un equilibrio, nello sforzo di razionalizzare i timori ma nella consapevolezza di non voler banalizzare o rimuovere la realtà. Video e fotomontaggi umoristici aiutano ad esorcizzare un sottile disagio che non si riesce a cancellare del tutto. Contributi come quello di Silvia Vegetti Finzi a pagina 15 rassicurano e consolano (leggetelo!).

La vita è piena di altre cose, la quotidianità in fondo è ancora quella di sempre (non conosco persone che si sono ammalate) e non c’è motivo di farsi prendere dal panico. Eppure, anche se il virus non è nel nostro corpo è ben presente nella nostra mente: il vicino sconosciuto diventa anche solo potenzialmente qualcuno che può contagiarti, si crea una distanza sociale nel senso peggiore del termine, in questa fase si bada a proteggersi e quindi a non aprirsi al prossimo, con gli amici si vorrebbe parlare d’altro, lo si fa anche, ma molto presto il discorso torna lì, al coronavirus. Se poi l’amica, docente di professione, che incontro per un aperitivo mi dice che a scuola si è trovata allievi che starnutivano o tossivano, sentendosi a disagio, il disagio diventa anche mio, e se anche affettivamente non si crea una vera distanza fra di noi il pensiero che potrebbe essere stata contagiata e quindi di esserlo poi anch’io resta in sottofondo. Ma possiamo vivere così, distanziandoci da tutto e tutti? Ad un certo punto si afferma in me un certo fatalismo: non è possibile evitare tutte le persone che in qualche modo hanno avuto contatti con la Lombardia o con persone che ci sono state recentemente, l’essere sociale che è in me si ribella ad una chiusura totale verso l’esterno e si accontenta di ridurre il più possibile i rischi seguendo alla lettera le raccomandazioni elencate sopra, che hanno comunque un effetto tranquillizzante.

Ovvio, prevale la mia responsabilità verso il prossimo, la solidarietà verso la comunità e le persone più a rischio, quindi rispetto le nuove regole, sperando che così si riesca davvero a contenere il contagio, consolandomi con il fatto che in fondo ho sempre goduto di buona salute. Ma devo anche accettare il fatto che prima o poi questo coronavirus possa arrivarmi molto vicino ed avere fiducia che il mio corpo e il sistema sanitario riescano a reggere il colpo. Di certo, da due settimane a questa parte qualcosa di profondo si è modificato, c’è un tempo prima del coronavirus e ci sarà un tempo, diverso, dopo il coronavirus. La certezza che la vita possa sempre scorrere liscia, figlia di un innato senso di onnipotenza insito nella mente umana, si sgretola. Il nostro compito, di fronte a una situazione imprevedibile e per noi inconcepibile, è di trarne delle lezioni positive: sviluppare la solidarietà e il rispetto verso il prossimo, non la discriminazione e la chiusura in se stessi; capire che la vita è un dono che non può mai essere dato per scontato. In fondo lo sappiamo già, ma lo dimentichiamo facilmente.