La psicopolizia al tempo dei social

/ 02.04.2018
di Paolo Di Stefano

Il Grande Fratello che lo scrittore inglese George Orwell immaginò settant’anni fa si è pressoché realizzato. Nel famoso romanzo 1984 (il voto è 6+), Orwell prefigurò un’entità superiore, onnipotente e onnipresente, che controllava la vita di tutti i cittadini incarnando insieme il totalitarismo sovietico di Stalin e quello nazista di Hitler. Il Potere del paese in cui si svolge l’azione, Oceania, era detenuto da un partito unico dotato di tanti occhi-telecamere il cui braccio operativo era una «psicopolizia» che aveva la missione di intervenire nei casi di trasgressione: ogni riservatezza veniva bandita in modo da punire il minimo tentativo di dissenso rispetto al cosiddetto Bispensiero, una sorta di pensiero unico che non ammetteva eccezioni. Ebbene, in una forma morbida e apparentemente indolore (la punizione fisica non è ancora prevista), il dominio del Grande Fratello si è realizzato, anche se facciamo finta di non saperlo o non siamo in grado di percepirlo: si è realizzato con il nostro pieno consenso, anzi con la nostra massima allegria. Questo neanche Orwell poteva prevederlo. Andare incontro felicemente al suicidio della propria identità.  

Circola in Rete un simpatico video-fumetto (5+). Il Signor X telefona in pizzeria: «Pronto?». Dall’altro capo del telefono: «Pizzeria Google. Desidera?». «Non è la Pizzeria La Perla?». «Sissignore, ma Google ha comperato la pizzeria e ora il servizio è più completo». «Vabbè, posso ordinare?». «Certo signor Rossi, vuole la solita pizza?». «La solita pizza? Ma come fa a sapere il mio nome?». «Controllando il suo numero di telefono, le ultime 37 volte ha ordinato una quattro formaggi». «Uhau, sì voglio proprio una quattro formaggi». «Signore, posso darle un consiglio? Mi permetterei di suggerirle una pizza di ricotta e rucola». «No no no, io odio quelle cose lì». «Ma è per la sua salute, il suo colesterolo non va così bene». «Scusi?». «Eh sì, abbiamo le sue analisi, incrociando il suo numero e il suo nome possiamo vedere il livello del suo colesterolo». «No, guardi, io prendo le medicine per il colesterolo e posso mangiare quel che voglio». «Signore, guardi, mi dispiace ma lei ultimamente non ha preso le medicine». «Ma come fa a saperlo?». «Noi abbiamo l’accesso ai dati di tutte le farmacie della città e l’ultima volta che lei ha comperato la medicina fu tre mesi fa e la scatola contiene solo 30 compresse». «Mmhh?». «Attraverso la sua carta di credito noi sappiamo che lei compera le medicine sempre nella stessa farmacia Brambilla»… Insomma, nel data base di Google ci sono tutte le informazioni sul conto del signor X: quanto guadagna, quanto paga per la colf, quanto spende in farmacia e al supermercato, quanti contributi… «Basta», urla il Signor X, «mi sono stufato di essere controllato, spendo tutto quel che ho, compero un biglietto aereo e me ne vado il più lontano possibile, dove non posso essere raggiunto da internet. Puoi cancellare la mia pizza?». «Nessun problema, già cancellata… Solo un’ultima cosa, signore». «Cosa vuoi?!». «Il suo passaporto è scaduto». 

C’è un’entità superiore che conosce ogni dettaglio della nostra vita, dei nostri gusti, della nostra salute, delle nostre abitudini. I giganti del web, come Facebook, hanno incamerato i nostri dati guadagnandoci una fortuna immensa: questi dati sono stati ceduti ai politici, che li hanno utilizzati per orientare il voto dei cittadini e cambiare l’esito delle elezioni (almeno quelle americane e quelle britanniche). Come ha scritto giustamente Beppe Severgnini, «siamo noi che, in cambio di comodità, offriamo la nostra intimità». E non salvaguardando la nostra intimità, la nostra identità, la nostra personalità, affidandoci al buon cuore dei padroni del web, alla loro furbizia o alla loro avidità, lasciamo (allegramente) che la democrazia vada a fondo mentre i bilanci dei colossi digitali si impennano. Nella gratuità estasiante dei social, che concedono a chiunque di inviare giorno e notte il suo mi-piace o non-mi-piace su ogni cretinata, l’unica cosa non social è il patrimonio dei padroni, ha scritto Michele Serra. In un’intervista alla Cnn, il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg (70 miliardi di dollari di patrimonio in buona parte detassato, ma voto 2 alla sua giovane faccia tosta) ha dichiarato candidamente: «Abbiamo fatto degli errori». Lacrime di coccodrillo. Dopo le presidenziali americane aveva definito «folle» l’ipotesi che la diffusione di «fake news» attraverso il suo social network avesse inciso sul risultato. 

Ora gli autorevoli difensori delle magnifiche sorti e progressive della Rete come nuovo verbo della globalizzazione si precipitano a pontificare sui pericoli della Rete per la democrazia. Prima degli scandali che ora si moltiplicano, se qualcuno consigliava prudenza su tanta eccitazione entusiastica per la tecnologia digitale era accusato di essere un apocalittico passatista. La «psicopolizia» del Grande Fratello ha funzionato.