La prossima sfida: estrarre CO2 dall’aria

/ 15.01.2018
di Peter Schiesser

Ricordate le promesse del presidente degli Stati Uniti di salvare e portare a nuovo splendore l’industria nazionale del carbone, creando 50mila nuovi impieghi a suon di sovvenzioni miliardarie? Non se ne farà nulla. La commissione nazionale per l’energia ha deciso all’unanimità – democratici e repubblicani – di respingere il piano dell’Amministrazione Trump, perché non ha senso, dal punto di vista dell’economia di mercato, penalizzare le energie rinnovabili. Si può aggiungere che dal punto di vista della pura realtà non ha più senso investire nel carbone quando persino Stati come il Wyoming e il Colorado, che fino a ieri puntavano su questa fonte fossile, oggi investono massicciamente nell’energia eolica («Tages Anzeiger» 10.1.2018).

Si può uscire dagli Accordi di Parigi sul clima, come ha platealmente fatto Donald Trump, ma la realtà ormai anche economica dei fatti spinge autorità e investitori in una direzione precisa, quella delle energie rinnovabili. I costi di produzione si sono fortemente ridotti e lo saranno ulteriormente in futuro. C’è un importante sforzo globale nel creare le basi per una trasformazione verde dell’economia, pur fra molte difficoltà. Anzi, ad oggi gli ostacoli sono ancora tali da far dubitare di poter raggiungere l’obiettivo di mantenere entro i due gradi centigradi il riscaldamento dell’atmosfera rispetto all’era pre-industriale: un consumo tuttora importante di carbone (in India e in Cina in primis), la lentezza nell’adozione di misure efficaci, la congiuntura economica mondiale (che volge di nuovo al bello, quindi si produce e si consuma di più) fanno accumulare altri ritardi sulla tabella di marcia. Ma anche se tutti gli Stati concretizzassero nei tempi annunciati le misure di riduzione delle emissioni di CO2, saremmo solo a metà dell’opera: per raggiungere l’obiettivo minimo di un riscaldamento non superiore ai 2 gradi non basta ridurre le emissioni, va tolto dall’atmosfera il CO2 che si è accumulato in eccesso in questi ultimi due secoli.

Questo è un aspetto su cui non è ancora stato messo l’accento, politici e governanti non ne hanno ancora colto la portata. Lo sottolinea invece il settimanale «The Economist» (18.11.’17), ricordando che 101 dei 116 modelli considerati dall’Intergovernmental Panel on Climate Changes (IPCC) dell’ONU per riuscire a contenere il riscaldamento del clima in 1,5 gradi centigradi partono dal presupposto di un saldo delle emissioni di CO2 negativo, ossia che dall’atmosfera venga tolta più anidride carbonica di quanta ne viene immessa. 

In pratica, scrive «The Economit», si tratta di risucchiare 810 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2100, l’equivalente di 20 anni di emissioni al ritmo attuale – e per avere una speranza di riuscirci, bisogna cominciare a farlo su larga scala nel prossimo decennio. Ossia domani.

Se ne parla poco, ma idee e tecnologie esistono già. «The Economist» cita tre importanti società mondiali attive in questo campo e una di queste, la Climeworks, ha sede a Zurigo. Il problema è che si tratta di tecnologie o approcci che richiedono un importante impiego di capitali o di superfici. Si possono creare nuove vaste foreste e investire in impianti che trasformano biomassa in energia e al contempo stoccano (nel terreno) il CO2, ma servirebbe una superficie grande come l’India. Oppure si possono esporre al sole quantità enormi di olivina, un minerale silicato che assorbe il CO2, o «catturare» il CO2 in aria, o arare meno in profondità i terreni agricoli. Si potrebbe anche sviluppare del carburante sintetico per gli aerei, alternativo al kerosene. Altre tecnologie vedranno sicuramente la luce nei prossimi anni. 

Come è stato il caso per le energie rinnovabili, un’importante sovvenzione statale iniziale potrebbe creare le basi per uno sviluppo tecnologico, il quale poi si autoalimenta, abbattendo i costi. Ma come finanziarlo? Come rendere interessanti simili investimenti? «The Economist» suggerisce una tassa sul CO2, affinché siano compresi anche i costi di «estrazione» dall’atmosfera. Eppure, se l’importanza di risucchiare il CO2 dall’atmosfera non è ancora riconosciuta globalmente, «The Economist» ricorda che ci sono Stati che si sono già posti un tale obiettivo: nel giugno del 2017 il parlamento svedese ha adottato una legge che obbliga il paese ad avere emissioni nette di CO2 pari a zero entro il 2045, attraverso la riduzione dell’85 per cento delle emissioni e l’estrazione di CO2 dall’atmosfera. Qualcuno deve fare da pioniere, e generalmente quel qualcuno poi ne ricava un vantaggio tecnologico ed economico sul lungo periodo. In questo caso anche a beneficio del clima. Vedremo se anche in Svizzera sorgerà un dibattito in proposito nei prossimi anni.