La notorietà: nuovo diritto, nuovo rischio

/ 09.01.2017
di Luciana Caglio

Citare Andy Warhol è inevitabile. Quella sua battuta, «Prima o poi, tutti hanno il loro quarto d’ora di notorietà», pronunciata con presumibile ironia all’inaugurazione della mostra del fotografo Nat Finkelstein, a Stoccolma, nel febbraio 1968, si doveva rivelare profetica.

Da geniale visionario, Warhol aveva percepito lo spirito di un’epoca che stava accreditando nuove forme espressive: dalla pubblicità al design, alla videoart, alle installazioni, all’arte povera, alle improvvisazioni provocatorie, il linguaggio cambiava. Sia nell’ambito visivo, sia in quello musicale e letterario, il rigore cattedratico selettivo cedeva il posto a talenti in libertà, che sperimentavano tecniche e materiali diversi, ispirati al nuovo concetto della «volatilità», tipicamente contemporanea. Creare, cioè, non più prodotti, fatti per durare nel tempo, bensì libri, dischi, arredi, edifici, persino correnti di pensiero, che subiscono l’impietoso logorio delle mode fugaci, dell’effimero. Ed è nato così quell’enorme mercato, sempre in movimento, dove appunto convivono valori e disvalori d’ogni genere, che ci accompagna ormai da oltre mezzo secolo, ed è diventato un terreno accessibile a chiunque voglia mettersi in gioco, sotto la spinta di un bisogno partecipativo naturale: quel «c’ero anch’io» che, strada facendo, ha però cambiato, radicalmente, connotati. Se prima ci s’impegnava prevalentemente al servizio della collettività, oggi ci si mette, senza remore di sorta, al servizio di se stessi. In altre parole, si coltiva la propria visibilità, per ottenere quello squarcio di notorietà, insomma quei simbolici 15 minuti di fama, considerati una nuova conquista democratica. Ma lo è poi veramente? 

Certo, comparire, pubblicamente, con il proprio nome, la propria immagine, la propria voce, in una delle tante occasioni proposte dalle cronache, non rappresenta più un privilegio elitario, riservato ai personaggi, appartenenti ad ambienti privilegiati, qual erano, prima dell’avvento dell’era mediatica, i politici in carica, i circoli culturali, i professionisti, medici e avvocati di successo, o le dinastie familiari di lunga tradizione. Personaggi, in verità, poco disponibili ai contatti sociali, in un Ticino persino un po’ musone, dove la riservatezza sembrava una virtù radicata nel costume locale. Sembra, adesso, di rievocare una sorta di preistoria leggendaria. Mentre, si sta parlando di comportamenti e di mentalità, che ci siamo appena lasciati alle spalle: travolte da un cambiamento che propone una materia di riflessione inquietante: è il rovescio della medaglia di un nuovo diritto che comporta un nuovo rischio. Anche nel nostro cantone, contano, e come, «i mi piace», accumulati sulle schermate di Facebook.

A questi aspetti di una notorietà, alla portata di tutti, esercitata sfruttando mezzi di comunicazione sempre più seducenti e performanti, ha dedicato la sua attenzione di osservatore, colto e persino divertito, Carlo Strenger, psicologo, filosofo e divulgatore, autore di un recente bestseller, dal titolo già rivelatore : Economia della celebrità: il terrore dell’invisibilità nell’era di Facebook (Rizzoli). In queste pagine, Strenger, di origini basilesi, docente all’università di Tel Aviv, collaboratore della «NZZ», denuncia, infatti, un’ossessione, sempre più diffusa, che concerne tutti i ceti e tutte le età: consiste nel culto esasperato del proprio io, di cui quantificare il valore, paragonandolo a quello delle celebrità del momento, promosse ormai a modelli insostituibili. Anche se, come rileva maliziosamente l’autore, a volte di tratta di figure inconsistenti: succede, paradossalmente, che si diventi famosi, per automatismo, perché si è famosi, e basta. È l’evanescente notorietà di certi divi televisivi, tipo Valeria Marini o Grande Fratello.

Ma, al di là di questi riferimenti banali, il bisogno di visibilità non è soltanto una questione di apparenza. Fa capo a un’ esigenza interiore di autostima, e il confronto, con i campioni vincenti, può suscitare un virtuoso processo d’imitazione. Il nostro Federer ha di certo contribuito a diffondere il tennis fra i nostri giovani. Ma, conclude Strenger, nei confronti dei grandi talenti non esistono scorciatoie. E, osservando il mal di vivere contemporaneo, bisogna imparare ad «accettare di essere insignificanti», apprezzando i vantaggi dell’invisibilità.