La Tinca. Ecco cosa sono stato io in una ventina di film nell’arco di 40 anni, la Tinca. È il termine con il quale gli attori designano i ruoli di passaggio, quei personaggi che compaiono una volta o due e poi scompaiono. E che non devono farsi ricordare. Un esempio: Gran Torino, il film diretto e interpretato da Clint Eastwood. Nella penultima sequenza, quando il protagonista è già stato ucciso, siamo nell’ufficio del notaio all’apertura del testamento. Si tratta di sapere chi erediterà l’esemplare della Ford «Gran Torino» conservata dal de cuius come un gioiello. Leggiamo sui visi dei presenti la cocente delusione della nipote maleducata e saccente e la gioia del ragazzo orientale che riceve l’auto. Nessuno ricorda, anche a proiezione appena terminata, che faccia avesse il notaio che ha letto il testamento. Una perfetta tinca.
Per ricoprire quel ruolo è necessaria una faccia credibile, nell’immaginario il notaio non può essere un trentenne palestrato ma un anziano autorevole. Un attore vero, con alle spalle decenni di carriera in ruoli impegnativi, considera la proposta offensiva per la sua dignità. Io no, trovo eccitante e piacevole l’aria che si respira su un set cinematografico, mi piace pranzare con il cestino in compagnia della troupe. Ho debuttato a quaranta anni d’età, come notaio nel film di Eugenio Comencini Il gatto e subito dopo, sempre con Comencini, sono stato il maresciallo dei carabinieri in Voltati Eugenio e ho proseguito come il giudice nel film Tifosi di Neri Parenti. Sempre con la regia di Neri Parenti sono stato in Cucciolo il padre di Massimo Boldi più giovane di me di otto anni.
Ed ora eccomi, a quasi 80 anni d’età, di nuovo in pista. La prima telefonata dall’agenzia arriva il giorno del mio compleanno: «Diego Abatantuono ha fatto il tuo nome per una parte in un film dove lui farà il protagonista. S’intitola I babysitter, è una commedia comica, le riprese sono previste a giugno in una villa di Ariccia. Ti interessa?». Altro che! Diego è una persona fantastica e Ariccia vuol dire porchetta. «Ti spediamo in Pdf il copione provvisorio». Apro la posta, eccolo: il mio personaggio è indicato con il termine «Vecchietto». Protesto, prima di andare avanti nella lettura: «A me vecchietto non l’ha mai detto nessuno. Capirei ancora «Esemplare adulto di maschio alfa» ma vecchietto proprio no, ho una reputazione da difendere». Risposta: «Nel film tu sei Up, hai presente Up?». Se vuoi lavorare nel cinema non devi mai ammettere l’ignoranza: «Come no! Up, chi non lo ricorda?». Chiedo aiuto a uno dei miei nipoti che mi mostra sul suo iPhone il trailer del film di Walt Disney: in effetti è un vecchietto che per salvare la sua casupola dalla speculazione edilizia appende sul tetto dei palloni gonfiati e la fa decollare. Per farmi somigliante ad Up dovranno tagliarmi i baffi; pazienza, ricresceranno più folti di prima; noi attori siamo disposti a fare ogni sacrificio per l’arte.
Nel film io sono un vicino di casa rompiscatole, inizio protestando con Diego perché l’altezza della siepe attorno alla sua villa supera di 20 centimetri in altezza quella stabilita dal regolamento condominiale. Poi nella notte, assente il padrone di casa, mi presento in casa sua per protestare contro il rumore generato da una festa scatenata dagli amici del babysitter del figlio decenne. È presente la variopinta umanità che anima questo genere di eventi; la produzione ha fatto le cose in grande, al confronto Fellini era un dilettante. Minaccio di chiamare la polizia se non la smettono; uno dei ragazzi scopre che sono una copia sputata di Up, mi porta in giardino, i suoi compari mi fanno accomodare su una sedia di plastica, attaccano dei palloncini e mi fanno volare in alto. Telefono alla produzione: «Avete detto che il copione è provvisorio. Non sarebbe più carino se il vecchietto che protesta venisse invitato a prendere parte al festino? Magari affidandolo a un paio di drag queens?».
Niente da fare, su quel punto il copione è definitivo, Up deve volare. Pazienza, mi lascerò legare alla sedia, poi ci sarà uno stacco e al posto mio sederà uno stuntman che volerà in alto. Firmo il contratto. Telefona l’aiuto regista, ha un tono di voce preoccupato: «Hai letto bene il copione? Devi sapere che nella scena del volo non è prevista la controfigura, sei tu quello che deve volare in alto, appeso a una gru». Tento una mediazione: «Se è un problema di spesa, posso venirvi incontro, pago io lo stuntman». «Non è una questione di costi, quella scena va girata in piano sequenza, senza stacchi. Te la senti? Sei ancora in tempo a ritirarti». Quel «te la senti» mi rimbomba in testa: ho il terrore di funivie, ovovie, teleferiche, non prendo mai ascensori, se mi affaccio da un’altezza anche minima ho le vertigini. Ma è in gioco il mio onore: «Che domanda, certo che me la sento, cosa sarà mai, stare sospesi per qualche metro...». «Abbiamo noleggiato una gru che arriva fino a diciotto metri».
Poi, per fortuna, nella sera fatale delle riprese, quella gru sarà indisponibile per un guasto meccanico e qualcuno penserà che ci sia stata la mia mano. Giuro che non è vero. Ne arriverà una di riserva che mi alzerà solo fino a dodici metri, vi garantisco che sono sempre tanti. La sequenza sarà ripetuta per otto volte prima di arrivare a quella buona. Adesso volo nel film e nel trailer. Mi iscriverò al corso di astronauta all’università della terza età.